25% flat tax, perché no

Il rischio di inapplicabilità di questa riforma è elevato. Per aggirarlo servirebbe una seconda aliquota al 35% applicabile solo al 17% dei contribuenti più abbienti

10 Luglio 2017

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La proposta di flat tax dell’Istituto Bruni Leoni è ambiziosa perché non configura solo una rivoluzione della struttura dell’Irpef (che già basterebbe) ma anche un cambiamento radicale delle politiche del welfare e della tassazione. Dall’Irpef con aliquota unica del 25% (invece delle attuali cinque aliquote al 23, 27, 31, 38 e 43 per cento) fino all’introduzione del minimo vitale la prospettiva cambierebbe completamente rispetto al sistema attuale (vedi scheda). Di quanti soldi stiamo parlando? Il netto da finanziare a regime sarebbe di 31 miliardi. Oppure di 27, tenuto conto che rispetto agli scenari 2015 considerati nella proposta, nel 2016 è stata abolita l’Imu limitatamente alla proprietà della prima casa.

La valutazione
Malgrado l’obiettivo condivisibile di modificare nel senso di una maggiore efficienza ed equità il bizantinismo dell’attuale sistema fiscale, la proposta dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl) soffre di alcuni difetti difficili da emendare. Il primo difetto è che, se attuata, la riforma proposta presenta caratteristiche di progressività molto limitate. Il Fisco ad aliquota unica vedrebbe ridursi la sua progressività man mano che, con il crescere del reddito imponibile, la deduzione della no tax area perde importanza sul reddito complessivo fino ad azzerarsi.

Se poi l’Iva salisse al 25 per cento, il nuovo sistema fiscale non sarebbe neutro ma più regressivo di quello attuale dato che le imposte indirette pesano in misura sproporzionata sui meno abbienti. E il conto per i contribuenti (famiglie più che imprese) derivante dalla maggiorazione dell’Iva sarebbe -secondo le valutazioni scritte dall’ex ministro Vincenzo Visco sul Sole 24 Ore – di 61 miliardi di euro, dunque ben più salato dei 19 miliardi indicati dai proponenti.

Il secondo difetto della proposta è che la riforma rischia di non entrare mai in vigore. Proprio in quanto complessiva, la proposta richiede (e dà quindi per scontate) l’attuazione di misure di controllo della spesa pubblica di un’entità che nessun governo italiano e nessun commissario alla spesa è finora stato in grado di mettere in pratica. In assenza di tali misure, dice la proposta, la riforma fiscale non parte o parte incompleta, ad esempio senza eliminare le addizionali locali dell’Irpef. Una rivoluzionaria proposta di riforma rischia di non partire mai perché la sua eccessiva radicalità – accoppiata con la giusta esigenza di non compromettere l’equilibrio dei conti pubblici – finisce per mordersi la coda.

La via d’uscita
Veramente ci sarebbe un modo di rendere la proposta dell’Istituto Leoni meno rischiosa e quindi più sostenibile. Anche se – lo ammetto – meno vendibile nell’arena politica. Pur mantenendo l’obiettivo di semplificare e diboscare radicalmente l’attuale giungla fiscale, si potrebbe affiancare all’aliquota unica del 25 per cento una seconda aliquota sui redditi dei contribuenti più ricchi. Ad esempio, si potrebbe pensare ad una seconda aliquota del 35 per cento, comunque inferiore alle attuali aliquote del 38, 41 e 43 per cento che si applicano ai contribuenti con redditi superiori rispettivamente ai 28, 55 e 75 mila euro. Si tratterebbe di chiedere a chi guadagna più di 28 mila euro (il 17 per cento del totale nel 2014) di contribuire con una frazione più elevata del loro reddito rispetto all’83 per cento dei restanti contribuenti. Con questa variante (due aliquote invece di una) si avrebbe una riforma meno dirompente ma con un’attuazione meno vincolata al verificarsi di condizioni difficili da soddisfare. L’Italia non sarebbe più il primo grande Paese occidentale ad avere introdotto una flat tax. Ma gli investitori se ne farebbero una ragione se in cambio venisse loro proposta una riforma (un po’) meno radicale, ma anche meno rischiosa e con l’importante effetto collaterale di non esporre la solvibilità dello Stato italiano a salti nel buio. Un sistema fiscale con due aliquote è già in essere nella Repubblica Ceca che aveva inizialmente attuato la flat tax al 15 per cento come molti altri Paesi dell’Est Europa che non hanno la necessità di finanziare sistemi di welfare costosi come quello italiano. Poi però, per migliorare la sostenibilità sociale e contabile della proposta, all’aliquota unica si è affiancata una sovrattassa di solidarietà aggiuntiva del 7 per cento. Se si vuole imitare l’esperienza di altri Paesi, è forse più sensato per l’Italia ispirarsi alle due aliquote di un Paese Ue piuttosto che uniformarsi all’esperienza del Belize. L’unico Paese al mondo con un’aliquota unica al 25 per cento.

Da L’Economia del Corriere della Sera, 10 Luglio 2017

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