A caval privatizzato non si guarda in bocca

Per avere redditi di mercato bisogna avere un'azienda di mercato

27 Aprile 2017

Tempi

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Torna a fare discutere la questione dei contratti milionari garantiti a giornalisti, autori e presentatori dalla televisione pubblica italiana.

Da un lato vi sono quanti, sostanzialmente sulla base di argomenti demagogici, vorrebbero ridimensionare simili remunerazioni, enfatizzando le difficoltà di molti concittadini (che faticano ad arrivare a fine mese) e il lusso entro il quale possono condurre la loro esistenza star mediatiche come Fabio Fazio, Antonella Clerici o Lucia Annunziata. Dall’altro lato, però, si sottolinea come tali retribuzioni che certo suscitano invidia siano connesse a una notevole popolarità e anche a risultati (a partire dall’alto numero degli spettatori) che discendono da logiche di mercato. In definitiva, i difensori dello status quo rilevano che se la Rai non spendesse tutti quei soldi per i propri nomi più noti, essi traslocherebbero verso qualche canale privato, con tutti i danni in termini di audience ed entrate pubblicitarie che si possono immaginare.

Entrambe queste posizioni sono fragili. Una retribuzione non è in sé ingiusta solo perché è elevata. Sul mercato un reddito è un prezzo ed emerge da negoziazioni. Se dovessimo contestare i redditi distribuiti dalla Rai solo perché sono alti, dovremmo egualmente mettere in discussione i profitti di Bill Gates e Mark Zuckerberg e di tutti coloro che, con le loro attività, hanno contribuito a rendere più interessante il mondo in cui viviamo, essendo di conseguenza premiati dal pubblico. E se sbagliano i moralisti che mettono sotto processo Bruno Vespa e Michele Santoro solo perché incassano molto, è certo vero che quello della Rai è un caso speciale, dato che si tratta di un’azienda che, istituzionalmente, mette di continuo le proprie mani nelle tasche di tutti gli italiani. I milioni di giuro che sono distribuiti con le retribuzioni d’oro provengono non già da scelte di mercato, ma sono il frutto di un’azione coercitiva. Tutti siamo obbligati a finanziare la Rai, che in teoria dovrebbe operare come “servizio pubblico” (qualsiasi cosa ciò voglia dire), e poi ci troviamo a sostenere un’impresa che sotto vari punti di vista si muove come qualunque altra e quindi cerca di combattere ad armi pari al fine di avere un gran numero di spettatori. Quello che però è legittimo in un’azienda privata, non lo è in una pubblica.

Un compito per Fabio Fazio
Vale per i contratti milionari quello che, da anni, si dice in merito ad altre scelte assunte di continuo dai vertici di via Mazzini: e cioè che mentre è normale che Libero o Manifesto siano schierati in un senso o nell’altro, e lo stesso si può dire per Repubblica o il Foglio, non può sposare alcuna ideologia una realtà che tutti siamo obbligati a finanziare. Per quale motivo, allora, la Rai dà spazio soprattutto a professionisti di un certo orientamento e non a quelli di un altro (come ha mostrato la vicenda di Nicola Porro)? È ammissibile che un’azienda statale fissi retribuzioni in modo discrezionale e conduca battaglie culturali di parte? Per essere liberi di dire quello che si vuole e per investire in un modo o nell’altro, è necessario che alcune condizioni siano rispettate: e nel caso della Rai esse condizioni non lo sono.

In effetti, la Rai non può essere di destra o di sinistra, e neppure un po’ di destra e un po’ di sinistra, perché è statale. Ed esattamente per questo motivo quanti la guidano non possono sulla base di scelte aziendali staccare assegni tanto pesanti a favore di belle soubrette o intellettuali della gauche caviar trasteverina. Quello che fanno Sky, Mediaset e La7, la Rai non dovrebbe poterlo fare. Se insomma i vari Fazio vogliono difendere la facoltà di dire quanto pensano e anche i loro redditi “di mercato” non hanno che una strada: battersi perché la Rai sia messa in vendita e privatizzata, e magari che sía ceduta gratis a chi in questi anni se l’è ampiamente comprata obtorto collo (e cioè i contribuenti).

La questione canone
Per avere redditi di mercato, bisogna avere aziende di mercato. E per avere la facoltà di esprimersi liberamente, bisogna operare in imprese libere e non lottizzate, che uno può scegliere di sostenere o anche no. Nella teoria liberale gli alti redditi di chi ha successo non sono giustificati in primo luogo sulla base di argomenti efficientisti: come a dire che è importante premiare i migliori così che essi possano esprimersi al massimo. Questo argomento ha un suo peso, ma va subordinato a un altro. E cioè al fatto che, in un’economia libera, ogni profitto è il risultato dell’azione volontaria di chi sceglie un bene o un servizio. Se nel campo dell’abbigliamento una catena come Zara si è tanto affermata, è solo perché milioni di persone hanno speso i loro soldi entro i suoi negozi, senza essere state obbligati a farlo. Nessun cittadino ha invece mai scelto di finanziare la Rai: gli è sempre stato imposto. Aboliamo quindi il canone e mettiamo l’azienda di via Mazzini sul mercato. A quel punto, ogni polemica dettata dall’invidia e dal risentimento sociale non avrà più alcuna ragione di esistere.

Da Tempi, 27 aprile 2017

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