A cosa servono i tagli delle regioni

L'Istituto Bruno Leoni ha dimostrato come si continui a costruire edifici sanitari in controtendenza al tasso di ospedalizzazione della popolazione

4 Novembre 2014

La Repubblica

Alessandro De Nicola

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La manovra finanziaria del governo sta suscitando, come era prevedibile, molte polemiche. Dimentichiamoci per un momento delle esagerazioni che l’esecutivo sta spargendo a piene mani per presentare al meglio il suo operato (la pressione fiscale diminuirà nel 2015 solo dello 0,1% secondo
il documento del MEF inviato a Bruxelles: altro che taglio storico!).

Volgiamo dunque la nostra attenzione verso lo scontro più clamoroso del momento, quello tra governo e regioni. Il primo vuole che le seconde contribuiscano al taglio delle spese con 4 miliardi e i governatori minacciano sfracelli annunciando inevitabili aumenti di tasse o diminuzione delle prestazioni sanitarie, le due mosse più odiose per i cittadini, in modo da avere un’arma di negoziazione nei confronti di Roma.
Il premier, con la consueta baldanza, ha rimandato al mittente le minacce ed ora si è aperto il valzer delle trattative.

Interroghiamoci però, come ha scritto Repubblica, se le Regioni abbiano veramente titolo per lamentarsi.
La prima cosa che si potrebbe chiedere a Chiamparìno e soci é: avete fatto la vostra spending review? Per le regioni sarebbe molto più semplice che per lo Stato centrale giacché sono di più recente costituzione e hanno competenze più limitate: non sarebbe difficile trovare dei locali Cottarelli in grado di individuare dove è possibile decurtare gli sprechi. Non avendolo fatto, è difficile dare credito ai governatori: non sapendo nemmeno dov’è il grasso superfluo, né quali sono le possibili efficienze o le priorità dei servizi, come fanno ad affermare perentoriamente di non poter procedere ai rísparmí richiesti?

Sarebbe fin troppo facile ricordare l’elenco incredibile di dissipazioni che emergono con allarmante frequenza: dilapidazione di denaro pubblico diversa dalla corruzione e che quindi sarebbe facilmente limitabile dalla volontà politica o da pratiche di buona amministrazione. Nei suoi rapporti, la Corte dei conti ha rilevato di tutto: in Abruzzo vengono selezionate le imprese senza gare pubbliche e si archiviano i contenziosi amministrativi nei confronti degli “amici”; in Campania si perdono 12 milioni di euro per aver fatto scadere i termini di prescrizione delle contravvenzioni; in Emilia Romagna fece clamore l’utilizzo di denaro pubblico per pagare televisioni private allo scopo di intervistare i politici regionali; in Friuli si sperperano 600.000 euro in musei della fotografia che non vedono la luce; in Umbria la regione finanzia incessantemente anche con iniezioni di capitale l’aeroporto perennemente in perdita di Perugia; in Lombardia uno studio dell’Istituto Bruno Leoni ha dimostrato come si continui a costruire edifici sanitari in controtendenza al tasso di ospedalizzazione della popolazione; il Lazio addirittura ha un’Agenzia che si occupa dei beni confiscati ai criminali con 10 dipendenti che è un doppione di quella nazionale, è sostanzialmente inattiva ed è anche non lecita, in quanto un’agenzia simile istituita dalla Regione Calabria era stata ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale. La Sicilia detiene una sorta di record in tutto questo: Per le ambulanze servono 2.400 autisti? Se ne assumono 3.350 e mille rimangono a girarsi i pollici. Le partecipate sono un florilegio di sprechi stigmatizzato duramente dalla Corte dei conti ( “un sistema evidentemente diseconomico ed inefficiente”): 11 società in liquidazione da vari anni e una addirittura da 30; il Distretto tecnologico siciliano che spende 20 milioni in consulenze, di cui il 74% per legali e fiscalisti e lo 0,15% per la ricerca scientifica; le spese regionali per le controllate in 4 anni sono ammontate ad un miliardo ed il 40% di queste ha registrato perdite per almeno 3 anni consecutivi.

Tuttavia, è sui numeri che le regioni devono dare risposte. Dalla lettura della relazione sugli andamenti della finanza territoriale 2011-2013 della Corte dei conti evidenzia alcuni dati interessanti. In primis si lamenta una non ancora sufficiente trasparenza dei bilanci. Inoltre, a fronte di un aumento incessante delle entrate tributarie regionali, si registrano movimenti di cassa in uscita in modo crescente (201,2 miliardi di euro nel 2011, 208,1 miliardi nel 2012 e 256 nel 2013, in quest’ultimo anno a causa di esborsi straordinari) e i maggiori importi sono imputabili a spese correnti ( 141,7 miliardi nel 2011, 142 nel 2012, 144,7 nel 2013). L’aumento di spesa si registra anche nel comparto sanitario. Peraltro il ministero dell’Economia nel Documento di programmazione economico-finanziaria (Def) aveva previsto per il 2014 111,5 miliardi di spesa per la sanità (in aumento rispetto ai 109,2 del 2013), 113,7 per i1 2015 e 116,1 per il 2016. I tagli che si chiedono, quindi, non sono sulle spese storiche ma su quelle tendenziali, tutte previste in aumento benché l’economia sia in stagnazione e l’inflazione quasi zero. Difficile ora per le regioni affermare di essere a stecchetto.

Su un punto alcuni governatori hanno ragione: sottopone l’insieme delle regioni a tagli lineari è iniquo ed inefficiente. Infatti, quello che si nota dalla relazione della Corte dei conti è una sproporzione a volte strabiliante tra numero degli abitanti di una regione e sue spese. La Lombardia in generale è la più virtuosa e si prende anche carico di 800.000 prestazioni sanitarie di residenti in altre regioni. Le regioni meridionali invece spendono di più assicurando tra l’altro una bassa qualità del servizio. L’esempio che tutti hanno in mente è l’Assemblea regionale siciliana che con 156 milioni di euro rappresenta i1 19% dei costi della politica regionale Italiana, pur avendo l’8,3% della popolazione! Ma purtroppo vi sono esempi di sproporzione anche più clamorosi. Ecco, il governo dovrebbe perlomeno impostare un percorso triennale che con chiarezza e obiettivi prefissati premi i virtuosi e punisca i dissipatori.

I tagli alla spesa non vanno fatti per compiacere Bruxelles, ma per liberare risorse per lo sviluppo e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. Ricordiamocelo.

Da La Repubblica, 4 novembre 2014

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