Fra i tanti mostri giuridici che hanno ormai infranto qualsiasi parvenza di equità tra contribuente e fisco, nella nostra legislazione tributaria c’è anche una norma per cui i prelevamenti effettuati nell’ambito di rapporti bancari possono essere imputati come ricavi o compensi. Tali possono essere considerati nelle rettifiche e negli accertamenti dell’amministrazione finanziaria, a meno che il contribuente non indichi il beneficiario del prelevamento o essi non risultino da scritture contabili (art. 32, comma 1, n. 2 del d.P.R. n. 600/1973). Per intenderci, un prelevamento da conto corrente di titolarità non solo di un’impresa, ma anche di un lavoratore autonomo, può essere ritenuto, per via presuntiva, frutto di maggiori redditi «nascosti».
La disposizione ha resistito per anni a critiche e eccezioni di incostituzionalità. Essa è diventata il simbolo di un rapporto di disparità tra il fisco e il contribuente molto più serio e grave persino di quello rappresentato dal livello di tassazione a cui siamo sottoposti.
L’articolo infatti capovolge logicamente e giuridicamente il senso economico della nozione di uscita (= addebitamento in conto corrente) che nel mondo reale è un costo. Ma, nel mondo tributario, diventa, oltre che un ricavo lordo, persino un reddito, da sottoporre quindi a tassazione.
Questo perché, con un sistema di doppia presunzione, il fisco può addurre, senza fornire prova, che un costo non giustificato sia corrispondente a un ricavo o compenso (prima presunzione) non dichiarato (seconda presunzione).
Questa patente, odiosa disparità di armi tra il fisco, che addita solo per presunzione, e il contribuente, è stata finalmente riconosciuta come tale, almeno in parte, dalla Corte costituzionale. In una sentenza della settimana scorsa, essa ha ridotto l’estensione della presunzione alla sola figura dell’imprenditore, e non anche del lavoratore autonomo, riconoscendo l’arbitrarietà della presunzione per cui i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari siano destinati a un investimento nell’ambito della propria attività professionale.
Una mezza vittoria, per due motivi.
Primo, perché continua ad essere ritenuta legittima la presunzione per l’imprenditore, sul presupposto che i suoi costi siano investimenti in beni e servizi che produrranno futuri ricavi. Un ragionamento (dal costo al ricavo, dal ricavo al reddito e conseguente tassazione) completamente privo di ragionevolezza.
Secondo, perché, in uno Stato di diritto, ci si attenderebbe che queste considerazioni siano nella mente del legislatore e non solo del giudice che può intervenire solo dopo che l’ingiustizia della legge è stata fatta. In questo caso, dopo 10 anni.
Per quanto a metà, resta una vittoria. Una vittoria del buon senso.
In un sistema fiscale dove le regole del gioco sono ribaltate rispetto all’ordinaria procedura di confronto tra le parti (chi accusa, prova; chi è accusato, si oppone a quelle prove), il fatto che da una delle norme che più rappresentano questo «mondo alla rovescia» siano almeno salvati i lavoratori autonomi è un passo avanti. Se il diritto è diritto, e non arbitrio mascherato, il clima di terrore da accertamento in cui vive l’Italia produttiva non è solo un freno alla nostra economia: è soprattutto un’ingiustizia.