I luoghi comuni e gli inganni ideologici

Adam Smith, nella lettura di Maria Pia Paganelli


9 Febbraio 2024

La Ragione

Carlo Marsonet

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Pochi pensatori sono noti quanto Adam Smith (1723-1790). Eppure, il suo nome è associato al termine “liberismo” in maniera vaga. È utile conoscerlo perché serve per essere informati da cosa tenersi a distanza. Lo scozzese è infatti considerato il padre del mercato, del laissez-faire, dell’egoismo, dell’avidità, del materialismo e chi più ne ha più ne metta. 

Seguendo una precisa impostazione, dunque, Smith avrebbe sistematizzato l’idea che è sufficiente la “mano invisibile” del mercato perché tutti si sia più ricchi e più felici. Come però capita quando si mette da parte l’ideologia, si scopre che le cose non stanno proprio così. Dà una mano in questo senso una guida alla lettura del suo testo più noto, La ricchezza delle nazioni (1776), scritta dall’economista Maria Pia Paganelli: La ricchezza delle nazioni. Guida alla lettura (IBL Libri). 

Intanto va ricordato che il titolo è più complesso e già comunica più informazioni. “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” indica infatti che non si tratta di una teoria o di un sistema: il testo è animato da uno spirito curioso e osservatore che vuole scoprire la realtà per quel che è, attraverso l’esperienza concreta. Smith è prima di tutto un filosofo, esponente dell’Illuminismo scozzese. Avrebbe dunque poco senso scindere tale opera dalla precedente Teoria dei sentimenti morali (1759) e in generale separare dall’economia lo studio della filosofia e della storia delle idee, come si tende a fare oggi. 

La sua non è una spiegazione aprioristica e astratta del come si genera la ricchezza. Piuttosto è una ricognizione che si basa sull’osservazione empirica e sulla conoscenza della storia, senza tralasciare le passioni che muovono le persone. Uno storico del pensiero economico come Edwin Cannan, peraltro non a lui avverso, ha osservato come Smith risulti superato per diversi aspetti. Eppure, la sua indagine è ancora attuale. 

Smith enfatizza il ruolo del lavoro (e del risparmio) per creare la ricchezza: un’ovvietà che di questi tempi non è più tale. Lo è ancor meno il fatto che a muovere la produttività di una società e quindi anche la ricchezza vi sia la divisione del lavoro. La quale tende a sfuggire all’occhio nudo (l’esempio classico è la fabbricazione degli spilli). Noi non vediamo quanto le cose che acquistiamo e usiamo siano il frutto di innumerevoli operazioni. Tendiamo così a dare per scontato che si possa spezzettare la catena produttiva schioccando le dita e senza conseguenze. Nulla di più presuntuoso. 

Per Smith il progresso non è il frutto di un piano razionalmente elaborato: delle decisioni dell’uomo di sistema, direbbe lui. È il frutto inintenzionale di un’evoluzione che nessuna mente ha pianificato. A ogni problema nuovo gli uomini, attraverso la creatività e la cooperazione, vi fanno fronte elaborando soluzioni (e con uno Stato che vigila). Non esiste insomma la formula magica della ricchezza. Ma senza la libertà di fare ne manca il presupposto fondamentale.

da La Ragione, 9 febbraio 2024

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