30 Settembre 2016
La Stampa
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
’Unione europea stanzierà 88 miliardi per lo sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente. Elite di governo e piazze arrabbiate per una volta sono d’accordo: aiutiamoli, sì, ma a casa loro. L’idea ha una sua plausibilità. Se la situazione nei Paesi di provenienza fosse meno disperata, i migranti sarebbero meno propensi a mettere a repentaglio tutto quel che hanno, per il sogno di raggiungere l’Europa.
Il problema è che, in Europa o in Nord Africa, la crescita è sempre più facile a dirsi che a farsi. Il dibattito sugli aiuti allo sviluppo è iniziato dopo la seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione. La logica per cui i trasferimenti di denaro dai Paesi sviluppati dovesse «aiutare» quelli che sviluppati non erano affonda le sue radici nell’idea di «appropriazione originaria». Per Marx, la borghesia aveva «accumulato» capitale per generazioni, prima che questo potesse dare origine alle innovazioni della Rivoluzione Industriale. Il foreign aid avrebbe dovuto costituire una versione accelerata e concentrata dello stesso fenomeno.
«Possedere denaro è il risultato dell’attività economica, non la sua precondizione». A notarlo fu un economista empirico della London School of Economics, Peter Bauer, che sfidò il consenso dominante. Per Bauer, «se sono presenti tutte le condizioni necessarie allo sviluppo, tranne il capitale, quest’ultimo verrà presto generato localmente, oppure le autorità o i soggetti privati potranno ottenerlo dall’estero a condizioni di mercato (…) Se, invece, le condizioni necessarie allo sviluppo non sono presenti, gli aiuti risulteranno necessariamente improduttivi e, pertanto, inefficaci».
Gli aiuti da-governo-a-governo sono intermediati dalle istituzioni pubbliche. Ma in Paesi in cui non c’è certezza del diritto, i contratti sono carta straccia e la proprietà privata è considerata «a disposizione» del governante pro tempore, neanche la manna dal cielo riesce a innescare lo sviluppo. Al contrario, gli aiuti possono avere effetti perversi. William Easterly, economista della New York University con un passato alla Banca Mondiale, ha più volte sottolineato il problema. Il suo ultimo libro, «La tirannia degli esperti», è un j’accuse alla visione «tecnocratica» della crescita economica, esportata dalle grandi istituzioni internazionali. Per avere crescita non basta azionare le leve giuste: istituzioni e cultura sono di importanza cruciale e tendono ad evolversi lentamente.
Sugli aiuti allo sviluppo ha espresso grande scetticismo anche Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia nel 2015. Nel suo ultimo libro, Deaton parla di una «aid illusion», «l’errata convinzione che la povertà del mondo potrebbe essere eliminata se solo i ricchi o i Paesi ricchi dessero più soldi ai poveri o ai Paesi poveri». Per Deaton, il dramma è che ogni tanto le buone intenzioni finiscono per consolidare regimi liberticidi. L’esempio più chiaro è lo Zimbabwe di Mugabe, dove ancora nel 2010 il 10% del Pil proveniva da aiuti allo sviluppo. Ma è la natura stessa del foreign aid ad essere paternalistica se non antidemocratica. «I donatori decidono questioni che dovrebbero essere lasciate ai loro beneficiari. I politici dei Paesi donatori – persino i più democratici – non hanno titolo per dire se in Africa sia il caso di dare alla lotta all’Aids una priorità più alta che all’assistenza pre-natale».
L’economista «di sinistra» Deaton cita con approvazione l’economista «di destra» Bauer, ma tiene aperto uno spiraglio. Aiuti fortemente «selettivi» potrebbero funzionare meglio: «Si potrebbe esigere che, prima di chiedere sostegno, i governi assistiti dimostrino il proprio impegno ad attuare politiche che vanno a beneficio della popolazione», come fa la Millennium Challenge Corporation del governo americano. Disegnare programmi realistici e realizzabili per «aiutarli a casa loro» è dunque molto difficile. Rendere più difficile per quei Paesi raggiungere potenziali acquirenti dei loro prodotti invece è facilissimo. Proprio i populisti che più insistono sull’ «aiutarli a casa a loro» nel contempo invocano dazi e barriere per proteggere le produzioni agro-alimentari europee. Sono le stesse forze politiche che hanno protestato per la decisione di limare i dazi sull’olio tunisino, o che alzano la voce contro l’accordo col Sud Africa che agevola l’importazione di agrumi. L’«alutiamoli a casa loro» è uno slogan che si scontra con il nazionalismo economico e la prosaica necessità di garantire specifici gruppi d’interesse.
Investire in “foreign aid” può servire a ripulirci la coscienza mentre scegliamo di impegnarci in una politica di respingimenti. Può forse comprare la disponibilità dei loro governi ad impedire la libertà di movimento dei migranti. Questi sono obiettivi raggiungibili. Lo sviluppo di quei Paesi, purtroppo, lo è di meno.
Da La Stampa, 29 settembre 2016