La Banca d’Italia resta una delle poche istituzioni che ispiri fiducia agli italiani. Magari gli italiani si sbagliano ma questa reputazione, in un Paese dove il «sono tutti uguali» è ormai un articolo di fede, forse è un valore da preservare. È quello che hanno pensato di fare, dai rispettivi punti di vista, sia chi ha cercato di scalzare Ignazio Visco (per dare un volto ai fallimenti della vigilanza) sia chi ha voluto riconfermarlo (in nome dell’indipendenza della Banca). Perché non porsi il problema in termini di regole, anziché di persone?
Visco è il primo governatore a essere «confermato» nel ruolo. Fino al 2006 la carica era a vita: come il Papa e i giudici della Corte Suprema americana.
Il problema di rinominare Mario Draghi non s’è posto, perché era già stato chiamato a capo della Banca centrale europea. Verosimilmente, sia perché di civil servant col curriculum di Draghi ce n’è pochi, sia per ovvi equilibri europei, è improbabile che l’evento si ripeta. Lo scontro su Visco è stato in larga misura un prodotto delle circostanze: l’anomalia di una mozione parlamentare, l’approssimarsi della scadenza elettorale, la volontà di esibire uno scalpo ai risparmiatori arrabbiati.
Ma è la stessa procedura di nomina che mette Via Nazionale nel mirino della politica. Il governo si trova a scegliere se confermare la fiducia a chi quel posto già lo occupa, che è come dire che ha fatto bene, o sostituirlo con altri, sconfessandone implicitamente l’operato proprio perché esiste l’alternativa del rinnovo. In queste condizioni, coltivare buone relazioni con l’esecutivo diventa una priorità per i vertici della Banca.
Per carità, Via Nazionale è a Roma, non su un altro pianeta. Nel dopoguerra, su otto governatori due hanno poi fatto il Presidente della Repubblica (Einaudi e Ciampi), due il ministro del Tesoro (Carli e Ciampi), uno il primo ministro (Ciampi), carica ricoperta anche da un ex direttore generale (Dini). Ciò avveniva per un’autorevolezza riconosciuta, alla quale il mandato a vita non era estraneo (con l’eccezione Einaudi, che diede prestigio all’istituzione anziché trarne). I governatori del passato sono stati spesso le voci solitarie che mettevano in guardia sul disastro dei conti pubblici. Glielo consentiva la loro autonomia. Con l’eccezione di Baffi, erano loro stessi a scegliere quando e come passare la mano, indicando più o meno apertamente il successore.
La politica in Via Nazionale ha sempre messo il naso: ci fu la vicenda terribile di Baffi e Sarcinelli, ma pure la scelta di Antonio Fazio, che saltò un gradino della scala gerarchica, come Visco, soluzione di compromesso nella partita fra Saccomanni e Grilli.
Eliminare le interferenze è impossibile, però si può provare a ridurle.
Come suggeriscono G.B. Pittaluga e Giampiero Cama (Banche centrali e democrazia, 2004), per l’indipendenza del governatore è importante che egli non duri in carica meno del ciclo elettorale. Sette anni sono un periodo congruo.
Oggi le ridotte prerogative della Banca renderebbero il mandato a vita eccessivo. Ormai essa si occupa in buona sostanza di vigilanza per i piccoli istituti di credito e di assicurazioni. Ma perché non pensare a un mandato non rinnovabile?
In questo modo, il governo non si troverebbe più nella scomoda posizione di benedire l’attività dell’uscente o meno. Questi a sua volta non andrebbe in cerca di benedizioni. Proprio perché ormai la politica monetaria si fa a Francoforte, la vocazione di sentinella dei conti pubblici che la Banca d’Italia aveva in passato è il compito più significativo che potrebbe avere oggi. Anche i politici possono comprendere l’importanza di un governatore libero di svolgerlo. Basta che pensino all’eventualità di non essere, in futuro, al governo, ma all’opposizione.
Da La Stampa, 31 ottobre 2017