Alberto Mingardi: "Monti ci salvò la faccia, ma da allora non abbiamo imparato nulla"

Era normale che nel 2011 qualcuno avesse un piano alternativo a Berlusconi. Ma ora anche Renzi è tornato all'antico: rilanciare l'economia "dando qualche mancia"

26 Ottobre 2016

Linkiesta

Argomenti / Teoria e scienze sociali

“Era assolutamente normale che qualcuno coltivasse l’idea di un piano B” rispetto a Silvio Berlusconi, che aveva perso credibilità anche di fronte ai propri elettori. Per Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, think tank liberale, nel 2011 l’arrivo di Mario Monti alla guida del governo “ridiede credibilità internazionale all’Italia, mettendo in sicurezza i conti”. Mingardi non crede che cinque anni fa si sia consumato un complotto anti-Cav. Però ritiene che anche allora i problemi di fondo dell’Italia non siano mai stati davvero affrontati. Lo stesso Monti, osserva in questo colloquio con Linkiesta.it, a parte l’intervento sui conti pubblici “non ha marcato una significativa discontinuità con le esperienze precedenti e comprò tempo”. Anzi, forse avrebbe fatto meglio “a chiedere aiuto al fondo salva-Stati, per lasciare all’Italia obiettivi chiari”. Cinque anni dopo, un altro capo del governo, Matteo Renzi, si ritrova a fronteggiare una situazione da prendere o lasciare, sia sul piano politico sia sul piano economico. E risponde con un antico atteggiamento: “Dando qualche mancia”. Si rischia un nuovo 2011? “No, sono situazioni imparagonabili. Ma la più grossa minaccia per il nostro Paese non è, credo, il referendum – prevede il direttore dell’istituto Leoni – ma un rialzo dei tassi. A un certo punto avverrà, anche se non sappiamo quando. Allora, smetteremo di poterci indebitare a costo zero e i nodi verranno al pettine”. Ancora una volta.

Partiamo proprio da quanto sta accadendo in questi giorni con la legge di Stabilità, che non convince Bruxelles: come giudica l’atteggiamento così aggressivo di Renzi nei confronti dell’Unione Europea?
Sulla manovra economica, Renzi prosegue sulla strada che ormai ha preso: quella di cercare di rimuovere i vincoli che gli impediscono di indebitare ulteriormente l’Italia e gli italiani. Credo che Renzi sia ben consapevole della funzione che svolge davanti ai partner europei: assicurare una certa stabilità politica all’Italia, levandola quindi almeno temporaneamente dal tavolo dei problemi ai quali i Paesi Ue debbono fare fronte. E’ una funzione che vorrebbe fosse ben retribuita, con la licenza di violare i vincoli europei. Che il rilancio dell’economia si faccia dando qualche mancia è un’idea di cui Renzi si è convinto dopo essere entrato a Palazzo Chigi. Prima di allora, aveva invece insistito molto sulle riforme dal lato dell’offerta, sulle liberalizzazioni, sull’importanza di eliminare le troppe incrostazioni del sistema Italia. Ma ha imparato presto che si tratta di riforme che si fanno oggi per osservarne i risultati in anni, non in mesi, e allora s’è accodato volentieri a quella nostalgia della spesa pubblica che fa molti proseliti fra gli italiani e tantissimi intellettuali che riescono ad incolpare il ‘neoliberismo’ anche della stagnazione di un Paese dove lo Stato pesa metà del Pil.

Cinque anni dopo il cambio Berlusconi-Monti, però, siamo di fronte nuovamente a un premier in bilico, questa volta per il referendum costituzionale. Vede similitudini con il 2011, si rischia ancora un’emergenza?
Sono due situazioni non paragonabili. Non ancora, perlomeno. Il governo Berlusconi si trovò nell’occhio del ciclone di una tempesta finanziaria quando già aveva perso drammaticamente credibilità a causa delle vicende personali del premier. Il governo Renzi sta invece facendo una battaglia politica su una riforma costituzionale che si è intestato con grande determinazione. Il passaggio delle dimissioni in caso di vittoria del no è inevitabile, perché il referendum vede fortemente impegnati sia il premier sia i suoi ministri. Ma l’emergenza per ora non c’è. Certamente, se vincono i no, se Renzi lascia Palazzo Chigi in malo modo e magari si trova a fronteggiare una ringalluzzita opposizione interna, se i gruppi parlamentari del Pd, repentinamente trasformatisi da bersaniani in renziani, lo mollano in una sorta di tana liberi tutti, se si fatica a formare un governo di scopo per rifare la legge elettorale, se i Cinque Stelle continuano a crescere nei sondaggi, è probabile che gli investitori internazionali si spaventino non poco, e magari anche i risparmiatori italiani. Ma è appunto una lunga serie di ‘se’. La più grossa minaccia per il nostro Paese non è però credo il referendum, ma un rialzo dei tassi. A un certo punto avverrà, anche se non sappiamo quando. Allora, smetteremo di poterci indebitare a costo zero e i nodi verranno al pettine.

Secondo lei il cambio Berlusconi-Monti era giustificato dallo stato dell’economia o è stata solo una manovra di palazzo?
Che Berlusconi non fosse amato dall’establishment italiano, è chiaro. Ma dopotutto Berlusconi e l’establishment hanno convissuto per quindici anni, pur dandosele di santa ragione. Berlusconi ha perso lo scettro del potere senza andare alle elezioni due volte, nel 1994 e nel 2011. Se una manovra di palazzo c’è stata, c’è stata più nel 1994 che nel 2011, quando venne meno la sua maggioranza parlamentare, col tradimento della Lega. Anche nel 2010 un pezzo della coalizione che lo sosteneva lasciò il Cavaliere, anche se forse con meno lucidità politica del Bossi del ’94. Sembrava che la maggioranza alla Camera fosse a rischio, ma Berlusconi riuscì a rappattumare la sua compagine e continuare a governare. In realtà, quando la tempesta finanziaria si fece più forte, la figura di Berlusconi era ormai appannata e c’era una guerra permanente fra diverse componenti del suo entourage. In quel contesto, lo spread saliva e il governo cercava disperatamente di dare risposte. Ricordiamo la manovra di Ferragosto del 2011, riscritta non ricordo più quante volte: in condizioni di caos, come erano quelle, era assolutamente normale che qualcuno coltivasse l’idea di un piano B.Certamente, l’establishment stappò lo champagne quando Berlusconi si dimise: ma non ci fu bisogno di grandi complotti, il danno fu sostanzialmente autoinflitto.

Che cosa avrebbe potuto fare allora Berlusconi per evitare il danno?
La famosa lettera della Bce conteneva un programma che, anche se messo in atto sull’onda dell’emergenza, avrebbe potuto mettere in sicurezza l’economia italiana per gli anni a venire. I tentativi di passare da quella lettera a una serie di misure concrete si infransero però sulla frenesia del momento e, più in generale, sulla percezione che il governo fosse lì lì per uscire di scena. Dobbiamo ricordarci che la credibilità del Cavaliere era appunto ai minimi storici. Certo voyeurismo mediatico sicuramente non lo ha aiutato, ma l’idea che fosse inadeguato a rimanere premier non era più patrimonio esclusivo degli anti-berlusconiani ad oltranza. Anche ‘a destra’ qualcuno non ne poteva più. Se Berlusconi avesse mantenuto la promesse esplicita e la promessa implicita della sua ‘discesa in campo’ forse le cose sarebbero andate diversamente, gli italiani (almeno quelli della sua parte politica) sarebbero stati più disponibili a scusarlo e oggi sarebbe ricordato in modo diverso. La promessa esplicita del berlusconismo era: vi abbasseremo le tasse. Il governo Berlusconi del 2008-2011 eliminò l’Ici, tenendo fede a una spettacolare promessa elettorale. Era una mossa politicamente astuta, tant’è che l’ha replicata anche Renzi: la gente tende a soffrire di più le imposte che paga direttamente, non quelle che le vengono trattenute sullo stipendio.

Poi cosa accadde?

Abolita l’Ici, il governo Berlusconi smise di ragionare sul tema dei tagli fiscali. Gli italiani che votavano Berlusconi si aspettavano anche una drastica semplificazione della macchina dello Stato e una riduzione del suo perimetro, invece il carico normativo è continuato a crescere, gli adempimenti non sono diventati più semplici e lineari. Per non parlare della mancata riforma della giustizia. Insomma, la debolezza del governo Berlusconi risiedeva nell’impressione generale che quel governo avesse fatto poco e male. Il guaio è che oggi è difficile non pensare a quegli anni come una gigantesca occasione sprecata: Berlusconi aveva consenso, un’ampia maggioranza parlamentare, aveva conquistato gli italiani con parole d’ordine di buon senso e lasciando loro immaginare una via d’uscita a una crisi identificata, correttamente, come il prodotto di un eccesso di interventismo. C’erano tutte le condizioni per cambiare il Paese, ma non è successo.

Gli interlocutori che abbiamo finora interpellato – Luca Ricolfi, Fausto Bertinotti e Giulio Sapelli – ci hanno descritto una sorta di democrazia sospesa dall’avvento di Monti a quello attuale guidato da Renzi, governi di emergenza che però non hanno risolto alcuna emergenza. Qual è stata secondo lei l’eredità di Monti?
Il governo Monti ha fatto una cosa ottima e importante, che ha messo in sicurezza i conti: la riforma Fornero. Ma su tutti gli altri fronti non ha marcato una significativa discontinuità con le esperienze precedenti. Sul fronte del consolidamento fiscale, lo ha perseguito sostanzialmente aumentando le imposte. La riforma del mercato del lavoro fu un mezzo disastro, e venne lasciata a Renzi la patata bollente dell’articolo 18. Certamente, a Monti va riconosciuto il merito di aver ridato credibilità internazionale all’Italia, di averne rinfrescato l’immagine e rinsaldato i rapporti in Europa e nel mondo. Ma quella credibilità era soprattutto frutto delle sue esperienze precedenti e della sua capacità di intrattenere rapporti. Pensioni a parte, che di per sé non è poco, quel governo non toccò davvero i problemi del Paese. Comprò tempo. Quanto alla sospensione della democrazia, ricordiamoci che nel 2013 abbiamo votato ma, un po’ per la legge elettorale un po’ per la frammentazione del quadro politico, non ha vinto nessuno. Che altro si poteva fare, se non il governo che si fece?

Col senno di poi, che cosa avrebbe potuto fare Monti in più?
Avrebbe potuto chiedere aiuto al fondo salva-Stati. In quel modo, dimettendosi avrebbe lasciato un’Italia con obiettivi chiari, rispetto al risanamento delle finanze pubbliche, e gli emissari della Troika. Questo avrebbe costretto i governi successivi a muoversi su una strada più stretta, e proprio per questa ragione a cercare magari di porre mano ai problemi di lungo periodo del Paese, anziché navigare a vista come hanno fatto, cercando sempre spazi per qualche spesuccia in più.

Da Linkiesta, 25 ottobre 2016

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