Aldo, libero per i libri

Compie 30 anni la casa editrice maceratese di Canovari: eleganza tipografica al servizio del pensiero libertario

1 Febbraio 2016

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Prima del primo numero del «Foglio» incontrai Aldo Canovari, che in seguito per vent’anni e più ci ha mostrato affetto e attenzione (mi dicono che nel suo ufficio campeggiano le lastre dei numeri zero del giornale).

Non sono un libertario, tutt’altro. Di formazione comunista e poi anticomunista, sono un individualista naturale che s’intruppa, che milita, che da qualche parte coltiva il vizio privato unico detestato da Aldo, l’idea dello Stato come astrazione concreta. Di fronte al prevalere del “sociale”, variante della prevalenza frutterolucentiniana del “cretino”, non nascondo di aver goduto all’asserzione thatcheriana: “Non conosco la società, conosco soltanto individui”. E da tempi non sospetti, da quando ero ancora nei postumi dell’eurocomunismo, figuriamoci.

Se penso alle oligarchie senza significato, volgarmente predatorie, sono tentato anch’io di rinnegare la lettura dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel e lo storicismo di Croce, in favore di una crociata laica per l’indipendenza dallo Stato, ma nel mio animo la libertà è la disciplina orchestrale dei Berliner Philarmoniker quando eseguono la prima e la seconda scuola di Vienna, non la dissonanza caciarona dell’antipotere e dell’antipolitica. E siamo sempre nel Brandeburgo.

Però sono abbastanza elastico, e abbastanza erudito dall’esperienza, per aver capito in tempo che Aldo Canovari è un uomo, un cittadino, un philosophe e un editore di qualità e di razza superiore, con un gusto dell’individualismo e una vena di cultura e coscienza che sa affascinare anche un sosia del bue muto come me, tanto è vero che attribuisce una certa primogenitura nel pensiero liberista se non libertario alla scolastica spagnola del Cinquecento, il che non è da tutti. Solo un italiano di Macerata, cioè un civis romanus di schietta fattura provinciale e cosmopolita, poteva assumere su di sé una tale inaudita e verosimile civetteria. Gli anglosassoni sono liberali di natura, gli italiani lo sono per scelta contro natura, e in questo sono più rari e addirittura più preziosi.

Canovari ha una sua idea del bene privato come liberazione dalle costrizioni del pubblico, del dominante, alla quale le persone di spirito volterriano, anche grossolano come il mio, non possono non rendere reverente omaggio. La sua impresa è di una solida e sconcertante solitudine morale, tanto più lodevole nella fiera delle vanità e delle inutilità cartacee che affligge la libreria italiana, almeno mediamente. Fissa l’obiettivo, definisce i suoi contorni, mette a fuoco e, procuratesi le migliori munizioni sul mercato, senza timore spara. E colpisce nel segno. Non talvolta. Non quasi sempre. Sempre. Le sue scelte sono di minoranza, di eleganza, di intransigenza, e hanno il dono di aprire la mente al solo compulsare copertine, titoli, risvolti, per non parlare dei testi. Non ha bisogno di dirsi esclusivo, lo è. Esclude l’ovvio, compagno di disavventura della corrente tendenza alla ripetizione del già noto e alla rimodulazione di un sonoro affollato di note false.

Nel difendere l’indifendibile è credibile, il che ammetterete non è da tutti. È credibile come lo fu il reverendo Swift nei suoi viaggi, nei suoi saggi. È una candida e ingenua Alice nel trionfo dell’intelligenza. È un John Locke involtolato nelle Facezie del seigneur du village de Ferney. Il suo appello al cielo, la resistenza alle pretese del pubblico sul privato, è un grido che nessun intellettuale italiano, e in genere la categoria è il contrario dei philosophes e dei philosophers specie quando si dice illuminista, ha mai saputo emettere dalla sua debole gola profonda. In lui non ci sono marinismi, barocchismi, prevalenze del segno sul volume: è un architetto classicheggiante dei suoi libri, un traspositore di culture, un artigiano di Macerata che vira verso ogni possibile longitudine e latitudine come fosse seigneur di un village ginevrino. Chiamano ammirazione la sua assenza di vanità, la sua pertinacia, l’insieme delle sue ossessioni lucide sulla giustizia, sul diritto, sull’economia, sulle istituzioni e i costituzionalismi civili liberali. La sua stessa alleanza con il cattolicesimo liberale, forgiata in un’amicizia e in una reciprocità societaria, uno dei segreti della sua maison, segue linee classiche e insieme ci fa scoprire una dimensione possibile del libertarismo italiano. Aspetto un suo pamphlet di critica al francescanesimo della Chiesa d’oggi, ma forse è già uscito, forse tutti i suoi liberilibri sono la confutazione vivente e vivace delle platitudes della teologia del popolo, con tutta la sua omologante tenerezza e con tutta la sua meravigliosa, incantevole, risonante ma flebile idea di misericordia. Dopo il sorteggio dei magistrati, idea geniale e possibile, mi aspetto il sorteggio dei sommi pontefici.

Che cosa serve alla cultura italiana? Qualcuno libero di parlare dei limiti della legge e del suo enforcement statuale, e in Aldo lo si è trovato. Qualcuno deciso nel denunciare la somma ingiustizia di una giustizia politicizzata e mediatizzata, e lo si è trovato nell’editore del cirque mediatico-giudiziario di Daniel Soulez Larivière. Un provocatore capace di far capire il perché del garantismo estremo come difesa del male assoluto, e abbiamo avuto i libri liberi firmati da Jacques Vergès. Ci voleva un costituzionalista senza trucchi, uno che non invocasse il costituzionalismo come compromesso culturale e strategico tra diverse varianti del totalitarismo novecentesco, e in cento buoni libri di costituzionalismo liberale uno Zagrebelsky ha trovato la sua nemesi. Ci voleva un difensore dei Jean Calas e dei Sirven di oggi, sottoposti alla gogna quando non al supplizio, e c’era Aldo Canovari pronto alla bisogna con Roberto Racinaro e altri. Ci voleva qualcuno che avesse in dispetto sovrano, e con la giusta dose di intolleranza psicologica e teorica, gli articoli liberticidi sopravvissuti nel codice penale, l’assistenzialismo come programma di protezione e di eviscerazione dell’individuo libero, e Aldo si è presentato all’appello. Ci volevano soprattutto un tatto, e una mancanza di tatto, un garbo, e una capacità di essere sgarbato, un tono, e una musica di ritmo duro e fecondo, e tutto questo Canovari editore ce lo ha dato. Era essenziale il gusto non futile del paradosso, la critica della stupidità e dell’infamità etica, la rivendicazione dell’autonomia del soggetto pensante e operante nella società aperta, e Canovari si è immerso in questa popperiana unended quest, pronto in ogni momento a farsi falsificare e contraddire.

Sono anche temi della multipredicazione, della minuscola capacità di analisi di un piccolissimo giornale come «il Foglio» o di un istituto di ricerca e battaglie come il Bruno Leoni, sempre contraddetti dalle loro scelte politiche o di cultura, dalle loro illusioni, dai loro errori e dal loro errare, ma mai in forma chiusa e antiliberale. In questo senso Canovari è un fratello. Non vuole mettersi troppo sottocosta ad altre imprese che non siano le sue, e lascia agli altri la libertà di sbagliare, come la concede virtualmente anche a se stesso, e di tacere, di omettere, di peccare. Ma è un virtuoso. Non amerà come me la devozione, che non è la caricatura della pietà religiosa ma un concetto di virtù eroico, complesso, antico, derivato dalla grande lezione greco-romana e dalla tradizione giudaico-cristiana. Aldo non è un temperamento omerico, ma il suo lavoro di decrittazione dei falsi d’autore della politica moderna e dell’ideologia moderna ha tuttavia qualcosa di epico, e allude alla manliness, concetto straussiano mutuato dalle capitali del pensiero classico, Atene e Gerusalemme. In questo Canovari è unico e Dio lo deve benedire anche a nome di chi non crede in lui o lo trascura.

Da Il Foglio, 31 gennaio 2016

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