Di che cosa ha bisogno Alitalia? Quali passi deve fare la compagnia per assicurarsi un futuro? I commissari hanno lavorato bene, in condizioni difficili: nel 2017 la compagnia avrebbe chiuso i conti con una perdita di 200 milioni, contro i 700 dell’anno precedente. L’amministrazione straordinaria serviva a scongiurare il fallimento e, col prestito-ponte del governo, doveva garantire le tratte nazionali «nel breve termine».
Obiettivo raggiunto. I commissari possono migliorare i processi ma è difficile che riescano a fare scelte strategiche: che genere di vettore deve essere Alitalia? Quali sono le rotte da potenziare e quelle da abbandonare? Sono domande a cui deve rispondere, come in ogni azienda, l’azionista: che ora non c’è.
Il compito dei commissari era risanare l’azienda e metterla sul mercato. Sul piatto ci sono ipotesi diverse: la più accreditata è Lufthansa, ma pare siano in gara anche un fondo americano, Cerberus, e due compagnie low cost. Sui giornali si è letto che Lufthansa sarebbe interessata a un’Alitalia «alleggerita», più efficiente: verosimilmente sia sotto il profilo dell’occupazione, sia rispetto a contratti di fornitura che gli analisti ritengono penalizzanti. Questo implica necessariamente decisioni nette.
Negli ultimi giorni, pur non avendo presentato un’offerta pare sia tornata in ballo anche Air France, l’eterno pretendente del vettore italiano. Nel 2008 sembrava cosa fatta l’ingresso nel gruppo franco-olandese. Ci si mise di mezzo la politica, anzi le elezioni.
L’ipotesi Air France era stata fortemente voluta dall’uscente governo Prodi e venne cancellata dal successivo esecutivo di centro-destra. Quel governo patrocinò una cordata di imprenditori italiani che, pur sprovvisti di esperienze aeronautiche, fusero Alitalia con AirOne, ovvero il suo maggior concorrente sulle tratte nazionali. L’operazione apparve a molti spericolata, garantiva al nuovo vettore il monopolio sulle rotte Milano-Roma, progressivamente eroso dalla concorrenza dell’alta velocità, ma perlomeno era una privatizzazione. Un’azienda «privatizzata», come ogni azienda privata, può andar bene o andar male ma presenta, rispetto a un’impresa pubblica, un indubbio vantaggio: non tocca ai contribuenti ripianare le eventuali perdite.
Ma lo Stato rientra nel capitale di Alitalia cinque anni dopo, attraverso le Poste. Una pensata con un solo effetto: fornire una giustificazione «capitalistica» (la tutela dei quattrini investiti) agli eventuali interventi a favore del vettore. Interventi le cui ragioni più profonde attengono ai rapporti coi sindacati e alla pace sociale.
La campagna elettorale per ora ignora la questione Alitalia. I professionisti del consenso non hanno alzato la bandiera dell’Alitalia tricolore. Ciò non significa necessariamente che questa volta la storia finirà meglio che nel 2008. Ugo Arrigo, economista dei trasporti, ha calcolato che non vendere a Air France ci è costato circa quattro miliardi di euro, tra perdite residue della «bad company» pubblica e costi della generosa cassa integrazione.
Allora a volere l’Alitalia italiana fu un Berlusconi vincente che la utilizzò per stringere una specie di accordo di pace coi sindacati. Oggi le prospettive politiche restano avvolte nella nebbia e almeno per ora i partiti prudentemente si tengono alla larga dal tema. Un revival nazionalistico, o qualche promessa troppo rotonda sui livelli occupazionali, potrebbe scoraggiare i potenziali compratori.
La questione rilevante da un punto di vista «pubblico» sarebbe garantire l’accesso al trasporto aereo a quante più persone possibile: un problema che hanno risolto non le compagnie di bandiera ma le low cost.
Il trasporto aereo è un mercato difficile. A immaginare il futuro di Alitalia deve essere necessariamente un azionista determinato e consapevole. Il vero dubbio è se, dopo le elezioni, la politica avrà la forza di trovarlo e di lasciarlo lavorare.
Da La Stampa, 26 gennaio 2018