Alle origini delle innovazioni di successo: idee che generano futuro

La spiegazione «culturale» della rivoluzione industriale indaga i meccanismi di feedback reciproco tra fatti e credenze

27 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Che ci fanno, in un libro sulle radici della Rivoluzione Industriale, due capitoli su Francis Bacon e Isaac Newton?

Quando pensiamo al decollo industriale dell’Occidente e ai fattori che l’hanno reso possibile, tendiamo a rinvenirne le cause in alcune, particolari istituzioni. Diritti di proprietà, rispetto dei contratti, nel caso dell’Inghilterra del diciottesimo secolo anche una certa stabilità politica. In questo suo A Culture of Growth, Joel Mokyr non ne nega certo l’importanza: ma ritiene che i sistemi di credenze abbiano contato persino di più.

La crescita economica moderna si fonda sulla capacità d’innovazione che è, in primis, l’esito di una certa cultura. Se per Thomas Ashton la Rivoluzione Industriale fu una “grandinata di congegni” che si abbatté sull’Inghilterra, Mokyr è da anni impegnato a ricostruire la storia delle idee che hanno reso possibili quei congegni. Per idee s’intendono qui sia le cognizioni che hanno consentito quella o quell’altra particolare innovazione, sia il complesso delle convinzioni che circolano nella società. Queste ultime, spiega Mokyr, in Europa sono state messe a punto e testate in un contesto che ha consentito un vero e proprio “mercato delle idee”: la Repubblica delle lettere. Sia Bacon che Newton sono stati pertanto, magari loro malgrado, “imprenditori culturali” di successo. L’empirismo di Bacon ancorò la scienza alla ricerca di regolarità e così facendo «rese possibile la partecipazione all’attività scientifica a individui che disponevano di una formazione o di capacità minori, in grado di raccogliere dati e informazioni dalle fonti più disparate, dalle conchiglie al moto delle maree». Il metodo induttivo-deduttivo di Newton rinsaldò l’idea che la realtà fosse governata da leggi che gli uomini potevano comprendere.

Quello di Mokyr è un approccio evoluzionista, consapevole che le innovazioni di successo prendono piede perché incontrano l’ambiente adatto. «La contingenza è tutto: non tutto quel che è accaduto doveva necessariamente accadere e molte cose che avrebbero potuto avvenire non si sono verificate». Per questo motivo idee e credenze sono così importanti: perché esse “fanno” l’ambiente, orientano le reazioni degli esseri umani, contribuiscono a spiegare perché è stata presa una strada e non l’altra. Ovviamente il territorio delle credenze è una vasta prateria. Lo stesso atteggiamento diffuso verso scienza e sapere pratico è influenzato da fattori ad essi estranei. In Inghilterra, per esempio, i Non Conformisti, estranei alla Chiesa anglicana crearono scuole nelle quali, oltre alla loro religione, insegnavano le scienze con entusiasmo, perché esse consentivano una migliore comprensione della realtà fisica e dunque della “gloria di Dio”. Ma i Non Conformisti erano anche esclusi da tutta una serie di carriere, a cominciare dall’università, e questo fece sì che fra essi vi fossero in gran numero inventori, interessati all’applicazione pratica delle conoscenze scientifiche, e imprenditori.

Nella ricostruzione di Mokyr, la spiegazione “culturale” della rivoluzione industriale s’intreccia con quella “istituzionale”. Già David Hume notava che «niente è maggiormente favorevole all’aumento della raffinatezza dell’animo e delle conoscenze di un gruppo di stati vicini e indipendenti, collegati da rapporti commerciali e politici (…) La suddivisione in piccoli stati favorisce la cultura, arrestando il crescere dell’autorità, così come quello del potere».

Di solito il pluralismo istituzionale viene utilizzato per spiegare la Rivoluzione Industriale sottolineando come la concorrenza fra Stati ne limiterebbe vicendevolmente le ambizioni “estrattive”: i governi mitigherebbero le loro aspettative fiscali, per non perdere contribuenti. Ma, nota Mokyr, Olanda e Inghilterra erano Paesi relativamente più tassati di altri, eppure proprio lì nasce l’industria moderna. La concorrenza istituzionale non calmiera soltanto le ambizioni predatorie: ma, più in generale, il malgoverno. Lo stesso Hume, nell’interpretazione di Mokyr perlomeno, era “più interessato alla cultura che alle tasse”.

«La concorrenza tra stati, quindi, comportava che (…) i sovrani competessero gli uni con gli altri per attirare i cittadini migliori, che fossero astrologi, pittori, artigiani, capitani di navi, musicisti o armaioli. Ma, ancora più importante, ciò rappresentava uno dei principali motivi che ostacolavano il coordinamento delle potenti forze conservatrici che cercavano di sopprimere gli innovatori culturali. A meno che i tentativi di soppressione non fossero ben coordinati tra le potenze reazionarie, un ingegnoso imprenditore culturale era in grado di mettere queste potenze le une contro le altre e così facendo sopravvivere».

All’inizio dell’età moderna (A Culture of Growth si concentra sul periodo 1500-1750), coesistevano quindi una Repubblica delle lettere genuinamente paneuropea e cosmopolita, e un potere politico frammentato e competitivo. L’una cosa e l’altra non erano in tensione: al contrario, si compenetravano. La frammentazione politica rese possibile una lotta concorrenziale per attrarre il talento: «Molti intellettuali si spostavano di paese in paese alla ricerca di sapere, protezione e incarichi di insegnamento, sfuggendo all’intolleranza religiosa». I principi erano in gara per “conquistare” intelligenze, le intelligenze erano cloro volta impegnate in una gara per la propria reputazione e il proprio prestigio.

È in questa competizione, che è sia fra cercatori della verità che fra regni che vogliono accaparrarsene, che germoglia l’idea di progresso: la convinzione cruciale, per una società pronta ad accogliere l’innovazione. Mentre il sapere cresce per accumulo, non sempre le istituzioni politiche seguono la medesima traiettoria. Ma l’idea che la storia possa avere un senso di marcia, che i mali del passato possano venire sradicati quanta più conoscenza si crea, semina entusiasmo per le novità, per le tecnologie, accresce il prestigio sociale di chi ne è responsabile.

In quest’approccio evoluzionistico per cui la contingenza è tutto, e non si può mai dire che l’unica porta che si poteva aprire è quella che effettivamente si è aperta, i nessi causali non vanno mai in una direzione sola. La ricerca di Mokyr è particolarmente affascinante proprio quando mette a fuoco i meccanismi di feedback reciproco fra fatti e idee. Per esempio, con Harold Cook, Mokyr sottolinea che «non fu un caso che la cosiddetta Rivoluzione Scientifica si sia verificata contemporaneamente alla crescita della prima economia globale (…) il commercio ha stimolato una ricerca di informazioni e conoscenze accurate in merito alla natura dei beni, dei loro prezzi, delle loro caratteristiche misurabili come quantità e volume e della loro origine geografica. Anziché cercare la “saggezza” un numero crescente di individui investigava i dettagli materiali del mondo percepito dai sensi».

Anche la storia delle idee è una storia di conseguenze impreviste, di casi felici e altri meno. Joel Mokyr la racconta con tutta la capacità di stupirsi del grande studioso.

Da Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2017

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