Altro che Ricardo The Donald segue le orme di von Clausewitz

Il presidente Usa vuole ribilanciare le tariffe per polarizzare il consenso elettorale, ma l'obiettivo è non essere sorpassato della Cina


7 Aprile 2025

Moneta

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Quando chiesero a Paul Samuelson se gli economisti avessero convinzioni condivise, lo studioso americano rispose che, in generale, i cultori della scienza di Adam Smith ritengono fondate le tesi di David Ricardo sul protezionismo. Secondo la cosiddetta «legge dei vantaggi comparati» l’apertura di due mercati in precedenza isolati avvantaggia entrambe le economie interessate. Se l’Europa si chiude dinanzi ai prodotti agricoli dell’Africa e dell’Asia a patire non sono soltanto gli africani e gli asiatici, ma gli europei.

Eppure dal momento in cui Donald Trump è tornato alla Casa Bianca i dazi dominano la scena. Per porre le cose nella giusta luce è comunque opportuno ricordare – come ha fatto Rana Foroohar sul Financial Times – che «ci sono soltanto tre numeri che interessano a Trump: il livello medio delle tariffe statunitensi sugli altri paesi è il 3%; quello dell’Europa è il 5%; quello della Cina è il 10%. Per lui e per molti americani tutto questo appare fonda mentalmente iniquo». Anche se nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco sull’attendibilità di quei dati, questa è la percezione di tanta parte d’America.

La maggioranza che ha scelto il ritorno di Trump è composita, ma al tempo stesso ha ben precise coordinate. Non sono le aree più ricche ad avere allontanato i democratici dalla Casa Bianca, ma invece quell’universo di provincia nel quale un ruolo significativo giocano i lavoratori bianchi non qualificati, che spesso devono fare i conti con difficoltà occupazionali.

Alla luce di tutto ciò, non è possibile sapere se Trump intenda usare i dazi essenzialmente in funzione tattica, per indurre europei e cinesi ad abbassare le loro tariffe e magari anche per incassare altri risultati. In fondo il fatto che nei riguardi di Messico e Canada egli abbia adottato misure che poi ha sospeso lascia pensare che l’amministrazione comprenda che chiudere le frontiere danneggi tutti, ma in modo asimmetrico; e che i dazi possano quindi rappresentare non già un fine in sé, ma invece un potente strumento di persuasione.

Non è da escludere, però, che Trump abbia pure sposato una sorta di ideologia. In particolare c’è chi attribuisce a Stephen Miran l’ispirazione teorica del nuovo corso a base di protezioni e chiusure commerciali. In uno studio pubblicato nel 2024 («A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System» , disponibile nel sito di Hudson Bay Capital), Miran muove da premesse decisamente trumpiane quando afferma che è sempre più forte l’esigenza di porre il sistema produttivo americano in una posizione più equa di fronte al resto dell’economia globale.

Per Miran alla base di tutto avremmo una sopravalutazione del dollaro, che sarebbe all’origine di una bilancia commerciale squilibrata e quindi dello stesso processo di deindustrializzazione degli Stati Uniti. Lo studioso, però, non propone soluzioni di ordine monetario, anche perché sotto la guida di Jerome Powell la Fed non appare disposta ad abbassare i tassi d’interesse, comprare valute estere in grande quantità o adottare qualche altra misura che aiuti a riallineare le valute (sempre che il problema sia reale). Secondo Miran la soluzione potrebbe allora venire dai dazi, che renderebbero più oneroso l’accesso ai dollari e quindi proteggerebbero i prodotti nazionali.

Leggere il paper di Miran porta a pensare come dietro alle scelte di questi giorni ci sia un quadro dottrinale e la cosa non sorprende. La polemica dei giorni scorsi su Altiero Spinelli e Ventotene è stata utile solo per un motivo: ha mostrato come anche prospettive che si vogliono laiche e disincantate – come il progetto di unificazione del Vecchio Continente – esigano santini, miti, teorie ed eroi. Il trumpismo non fa eccezione. Al tempo stesso, però, come al processo di unificazione contribuì molto più un tecnocrate quale Jean Monnet che non i collettivisti confinati da Mussolini sull’isoletta, di fronte alla guerra commerciale in atto è bene tener presente la natura profonda della politica e il caratteristico cinismo dei suoi protagonisti.

Al di là dei contorsionismi concettuali di Miran, è bene avere presente che Trump sta giocando una carta che oggi appare politicamente efficace, perché ribadisce agli elettori come il contribuente americano si sia in vario modo svenato: per proteggere militarmente società tutt’altro che indigenti, ma anche per assecondare una nuova divisione del lavoro internazionale. Nel linguaggio diretto che la comunicazione politica esige, i dazi interpretano una retorica volta a riportare a casa molti posti di lavoro.

Oltre all’obiettivo politico interno, ce n’è poi uno esterno, perfino più importante: e si tratta della Cina. L’America di Trump ricorda bene come negli anni Settanta qualcuno temesse (e a torto) che il Giappone stesse per soppiantare gli Usa nella gerarchia delle potenze globali, prima di iniziare una fase di declino. Oggi però è la volta della Cina e in questo caso la sfida è ben più concreta. L’economia qui non conta più. E invece che a David Ricardo bisogna guardare a Carl von Clausewitz.

oggi, 18 Aprile 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
0
    0
    Il tuo carrello
    Il tuo carrello è vuotoTorna al negozio
    Istituto Bruno Leoni