Le principali forze di opposizione – con l’unica eccezione di Italia Viva – hanno presentato una proposta unitaria per l’introduzione di un salario minimo legale, di nove euro l’ora. Si tratta di una risposta sbagliata a una domanda mal posta e fa bene il governo a resistere a tale richiesta.
La risposta è sbagliata, intanto, per ragioni empiriche. La direttiva europea sul salario minimo, su cui tanto e a sproposito si è discusso, raccomanda di fissare un minimo tabellare attorno al 60 per cento del salario mediano. I famigerati nove euro si collocano ben sopra, attorno al 75-80 per cento. Se fissassimo l’asticella così in alto, tra i paesi Ocse ci supererebbero solo la Colombia e il Cile, dove peraltro il salario mediano ufficiale probabilmente sottostima il valore reale a causa della diffusa irregolarità del lavoro. Ma la pretesa di stabilire un salario per legge è anche una risposta sbagliata per ragioni procedurali: nei paesi che hanno un salario minimo legale, il suo livello viene normalmente stabilito da commissioni tecniche, proprio per sottrarlo a quel mercato delle vacche politiche a cui abbiamo assistito in questi giorni. È vero che la proposta prevede un tale organismo, ma non rinuncia ad affossarlo in nuce proprio nel momento in cui pone un limite inderogabile e insostenibile.
Né è ragionevole l’osservazione dell’ex presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, secondo cui l’imposizione dei 9 euro produrrebbe, oltre a un beneficio per i lavoratori interessati, anche un maggior gettito per le casse dello Stato: ciò sarebbe vero solo se il salario minimo non avesse alcun impatto sull’occupazione. Ma l’evidenza disponibile suggerisce che questo smette di essere vero quando si supera il 60 per cento del salario mediano (non a caso la soglia individuata dalla direttiva europea). E i nove euro non solo sono molto al di sopra di tale livello in media nazionale; in alcune aree, specie al Sud o nelle zone rurali, la proporzione è ancora più alta. In tutti questi contesti, l’imposizione di una cifra eccessiva può distruggere opportunità lavorative o, più probabilmente, farle scivolare verso l’irregolarità.
Questo ci conduce alla domanda: in realtà chi discute di salario minimo ha in mente un tema completamente diverso, cioè il livello salariale che, nel nostro paese, è certamente basso. Ma questo tema, assolutamente reale e urgente, non può essere risolto con un tratto di penna del legislatore. Non solo perché, nel nostro ordinamento, spetta alle parti sociali trovare un accordo, ma anche e soprattutto perché la vera ragione della nostra dinamica salariale va cercata nella pluridecennale stagnazione della produttività. Se vogliamo spingere gli stipendi più in alto dobbiamo liberare la produttività: cioè smettere di accapigliarsi sul numero e scendere invece sul campo delle riforme pro-crescita, dal taglio delle tasse alle liberalizzazioni, dalla pubblica amministrazione alla giustizia.
L’Istituto Bruno Leoni ci ha provato, all’indomani delle elezioni, col Manuale delle riforme (PDF). Bisognerebbe partire dalle cause, per curare i sintomi: il percorso inverso non ha mai portato nessuno a buoni risultati e l’Italia del 2023 non fa e non farà eccezione.
4 luglio 2023