L'altro processo ai giornali

I media e la fabbrica delle notizie nell'èra dei social e dopo Trump

25 Ottobre 2021

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

“II punto di non ritorno per il collasso del sistema di produzione e distribuzione dei giornali si situerà tra la metà e la fine degli anni 20. Una lunga serie di chiusura di giornali continuerà fino a metà degli anni 30: cinque anni di agonia, seguiti da dieci anni di convulsioni, e poi la morte”. E’ perentorio Andrey Mir, fin dal titolo del suo libro, “Il post giornalismo e la morte dei giornali”. Le nuove tecnologie di comunicazione hanno messo in moto il processo, ma sono fatti demografici a renderlo inevitabile. L’idea che i giornali siano importanti per preservare la democrazia è legata a fattori generazionali: scomparsa la generazione che nutre queste idee, non ci sarà più ragione per la loro esistenza: le ragioni di mercato sono già scomparse, e quelle sociali sono legate alla restante vita dell’ultima generazione che ha letto giornali. La fine dei giornali non è la loro transizione al digitale: il giornalismo come lo conosciamo non sopravvivrà nello spazio digitale. Non è una crisi ciclica, è la fine di un’epoca.

I media storici
All’inizio del ’500 erano famosi gli avvisi di Venezia: insieme alle navi arrivavano notizie, delle vicende politiche dei luoghi che visitavano, dei prezzi delle merci che trasportavano, informazioni di grande valore per le corti, per i mercanti. A copiarle e distribuirle provvedevano le “scrittorie”, in nuce agenzie di stampa. Il giornalismo professionale precede di 50 anni i primi giornali, le gazzette: di basso prezzo e di minor valore, destinate a un pubblico più ampio, in ogni caso erano pagati “dal basso” e cioè dagli utenti finali.

Divenne evidente l’interesse per le classi al potere di prenderne il controllo: i primi giornali nacquero non dalla richiesta dei lettori ma grazie ai decreti dei potenti. Vendere notizie verso il basso, la prima funzione del giornalismo, divenne presto secondaria rispetto a quella di avere influenza politica. Insieme alla ricchezza i mercanti e la borghesia acquisirono nuove opportunità di comunicazione: il torchio da stampa e poi la rotativa e la linotype producono la trasformazione dal giornalismo del convincimento al giornalismo commerciale: la stampa diventa il primo autentico prodotto industriale di massa.

L’era moderna nella storia, il capitalismo nell’economia politica, l’era di Gutenberg nella cultura sono strettamente intrecciati. La leadership culturale della stampa è stata spazzata via dai mezzi elettronici: ma anche la modernità, come Era della Ragione, e gli asseti politico-economici del capitalismo sono sotto attacco. E’ su questo sfondo che si deve rivedere il ruolo e il futuro del giornalismo nella prossima fine dei giornali.

Ci sono due tipi di giornalismo, quello commerciale che vende notizie ai lettori, quello politico che vende programmi ai committenti. Ad essi corrispondono due modelli di business, quello che è pagato dal basso da coloro che vogliono leggere notizie, e quello pagato dall’alto da chi vuole che altri leggano le notizie. Fin dall’inizio il giornalismo è stato terreno di scontro: il giornalismo commerciale ritrae il mondo com’è, quello politico lo ritrae come dovrebbe essere. In realtà entrambi vendono programmi oltre che notizie: ma per quello commerciale la notizia è la merce e il programma un by-product, per quello politico invece il programma è il prodotto, ma può essere venduto in alto ai committenti solo se è anche venduto in basso ai lettori. Il ruolo di chi paga è cruciale per definire la funzione del giornalismo: ci vuole per forza una domanda dal basso, ma c’è sempre qualcuno dall’alto disposto a pagare perché certe notizie vengano diffuse al pubblico.

Il valore delle notizie come mezzo per trasmettere programmi è molto maggiore del valore della “merce” notizie. Il “pagato dall’alto” prevale sul “pagato dal basso” per la sua maggiore efficienza: i costi di transazione per la vendita al dettaglio sono molto maggiori di quelli per la vendita all’ingrosso. La strategia di vendere notizie al dettaglio ai lettori perde inevitabilmente rispetto a una che vende anche notizie e audience all’ingrosso. Le élite capirono presto l’importanza di distribuire le “giuste” notizie. La politica si appropriò del business delle notizie, perché la politica è sempre il migliore dei business.

Fu la tecnologia a cambiare le cose: la riduzione dei costi rese possibile la stampa popolare, e la sua diffusione attrasse i pubblicitari. Il passaggio dal modello di business dipendente dai partiti politici a quello dipendente dalla audience cambiò la natura del giornalismo. Prima i partiti politici lo consideravano come una loro estensione, per screditare gli oppositori anche con notizie false: se i guadagni derivano da una larga circolazione e dalla pubblicità, i giornali diventano politicamente indipendenti, perfino obbiettivi; non si rivolgono più ai lettori come cittadini ma come consumatori.

Con la stampa popolare i mass media divennero l’ “industria culturale” nel senso di Horkheimer e Adorno, non uno strumento ideologico, ma un’industria capitalista. Quando la tecnologia rese possibile la società dei consumi di massa, il business del giornalismo da quello di vendere notizie ai lettori diventò quello di vendere audience ai pubblicitari. E poiché questi, non hanno una precisa agenda politica, con il modello di business basato sulla pubblicità, il giornalismo diventa più indipendente.

Per David Smythe, “prodotto” dei mass media è il potere dell’audience: dà un contributo inconscio alla vendita dei beni e alla sostenibilità del mercato (e delle élite). Inconscio ma non gratuito, viene pagato comperando i mezzi di comunicazione, come gli apparecchi Tv. La mercificazione dell’audience sarebbe un altro esempio dello sfruttamento capitalista: fa lavorare la gente anche nel loro cosiddetto tempo libero, che viene venduto, anche se non è la gente a venderlo.

Per Edward Herman e Noam Chomsky il modello è “Propaganda”: i mass media, in virtù dei meccanismi della proprietà, della ricerca del profitto, della pubblicità, sostengono le imprese e le élite al potere. Senza controllo politico né finanziamento dei partiti, solo con la pubblicità i media sono diventati una macchina di propaganda e di formazione di consenso nelle masse. Per i mass media i ricavi dalla vendita delle notizie al dettaglio sono secondari, per i pubblicitari sono un costo necessario, una sorta di tariffa pagata per conto della società allo scopo di mantenere il giornalismo. Una situazione ideale per le redazioni, ma non ottimale per i pubblicitari: durò fintanto che non trovarono una via alterativa per raggiungere la loro audience.

La fine del monopolio
Il 15 novembre 2011, quando la polizia fece sgombrare da Zuccotti Park i manifestanti di Occupy Wall Street, la notizia fu data da Twitter prima che dall’agenzia Associated Press. Con la proibizione a tutti i dipendenti di mandare sui social notizie che non erano ancora state date da Ap, divenne chiaro che le notizie le vuole tenere per sé, anche quando c’è un modo per bypassarli. Quando internet consente di farlo, il mercato dei fornitori diventa mercato dei consumatori. Anzi, i consumatori sono anche produttori, presumer. I media cercano di conservare il loro giardino delle informazioni costruendogli intorno delle barriere. Inutile: lo strumento dei media è disponibile a tutti e ciascuno può usarlo senza controllo. Con i social media il giornalismo ha perso il suo monopolio, e non c’è nulla che lo possa riprodurre.

Per tutto il ’900 i ricavi pubblicitari erano stati superiori e quelli da edicola, nel 2014 la situazione si invertì per la prima volta in un secolo. I pubblicitari pagavano per il prodotto, strapagavano per la sua consegna: nel mondo digitale ci sono servizi capaci di consegnare un messaggio pubblicitario personalizzato, la differenza è la spesa della società per l’esistenza del giornalismo. Mentre internet emancipava l’autorialità, nascevano altri tipi di editori, meglio “pubblicatori”: un esercito di pubblicisti dilettanti, oggi conta la metà degli esseri umani, e continuerà a crescere finché non avrà raggiunto l’85-90 per cento della popolazione della Terra. I loro “outlet” corrispondono esattamente alla loro audience, collettivamente sono testimoni di tutto quello che gli accade intorno, e lo distribuiscono a chiunque in un incalcolabile caos di “atti casuali di giornalismo”.

Quando il mezzo era il messaggio
All’epoca degli avvisi veneziani, non avrebbe avuto senso pubblicare opinioni: quando le notizie sono scarse, solo i fatti hanno importanza. Durante la rivoluzione borghese fu la limitazione dei prezzi fisici a obbligare a una selezione. Il giornalismo d’opinione fu essenziale alla creazione della “sfera pubblica”. L’abbondanza di notizie e le limitazioni fisiche obbligarono a comprimere il profluvio di fatti in un’agenda comprensibile. Navigare nel giornale aiutò a dare un senso agli eventi: l’anniento di valore delle opinioni era dovuto allo squilibrio tra la capacità di raccogliere notizie del mezzo e l’insufficiente capacità dell’ecosistema di assorbirle.

La tecnologia del telegrafo produce un nuovo tipo di notizie, provenienti da lontano e istantanee, necessarie all’espansione del capitalismo industriale, raccogliere notizie diventò per la prima volta separato dal trasmetterle. Nasce lo stile telegrafico, niente commenti, solo fatti nudi e crudi. Con la guerra di Crimea (1853-56) nasce il moderno ecosistema delle agenzie telegrafiche. Quando il costo del telegrafo diminuisce, i giornali sono inondati di notizie: incomincia un nuovo ciclo di primato delle opinioni.

Una storia che si ripete: ogni nuovo mezzo di comunicazione di massa – la radio, la Tv, internet – fa di ciascun messaggio una notizia: torna il giornalismo dei fatti. Quando poi il mezzo raggiunge la sua capacità di raccogliere notizie, torna a dominare il giornalismo di opinione. Internet sembra aver sfruttato tutte le capacità di raccogliere notizie e l’ecosistema quella di gestirle: è la nostra capacità di assorbirle che ha raggiunto i limiti fisiologici, e questo aumenta di nuovo il valore delle opinioni rispetto ai fatti. Il pendolo si è mosso ancora: raccontare i fatti si è arreso al commentarli.

Col diffondersi dei mezzi digitali, si verifica uno spostamento verso un modo di raccontare i fatti più soggettivo, soprattutto nella Tv e nel giornalismo online. La Cnn, fondata nel 1980, solo notizie 24 ore al giorno, esalta la capacità della Tv di raccogliere notizie. Fino a quando l’abbondanza delle notizie ne diminuisce il valore e accresce quello di navigare tra le notizie. Fox News e Msnbc, fondate nel 1996, tendono più a esprimere opinioni, la prima a destra, la seconda a sinistra. C’è anche un motivo economico: raccogliere una notizia è molto più costoso che prendere un paio di esperti e farli parlare davanti a un microfono.

Il fact-checking, che ha avuto un boom con il trumpismo, ha origini con il Bureau of Accuracy and Fair Play di Pulitzer nel 1913. Le fake news sono il naturale by-product del diffondersi delle informazioni su internet, il fact-checking è diventato un’ossessione: eppure il valor d’uso di una notizia divulgata non è il suo essere aderente alla realtà, e il suo significato sociale deriva dal suo essere disseminata. Una notizia è diffusa per la sua importanza, ma diventa importante grazie alla sua diffusione. Fake news, e il loro padre i fattoidi, sono caratteristiche degli stadi evolutivi dei media. La validazione di significato per disseminazione è effetto dei mezzi di comunicazione, sviluppati come fattoidi nei media tradizionali e esplosi in forma di fake-news nel nuovo ambiente formato da vecchi e nuovi media. Per comprendere le fake news, bisogna capire il perché della loro disseminazione, non dimostrare la loro falsità.

Chi pagherà per il giornalismo?
Nel futuro ambiente dei media, nessuno riuscirà a vendere notizie: non sono più una merce, la gente si è abituata ad averle gratuitamente in cambio dell’attenzione. Il modello di vendere le notizie al dettaglio ai lettori e all’ingrosso alla pubblicità si reggeva sul monopolio: grazie alla emancipazione del valore autoriale il contenuto da merce è diventato regalo. I giornali credono che a contare sia la loro qualità: ma quello che ha valore di mercato non è più il contento ma il tempo dell’ascoltatore.

Alcuni vedono in questo un pericolo per la democrazia. La pubblicità forniva la maggior parte dei ricavi al giornalismo, era il solo mezzo a disposizione delle imprese. Nell’epoca della pubblicità mirata, esse comprano direttamente l’accesso ai clienti, non hanno più bisogno di sostenere il giornalismo per la creazione di contenuti. Diventa così palese qual è la vera natura del giornalismo, un bene pubblico, che la società richiede ma che il mercato non fornisce in sufficiente quantità e qualità. Come per gli altri beni pubblici, ci vogliono una politica pubblica e danaro pubblico. E’ finito il matrimonio tra capitalismo e giornalismo; sostenuto da investimenti pubblici, il giornalismo rischia di diventare un sistema di propaganda pagata dallo Stato. E se è un elemento essenziale della democrazia, chi lo paga?

Il finanziamento tramite fondazioni è di solito considerato positivamente, perché il meccanismo impedisce che, magari in futuro, prevalga la volontà corruttrice di un singolo individuo. Ma questo ha un prezzo: spinge il giornalismo verso l’attivismo, incentiva la mutazione di obbiettivi commerciali in propaganda sponsorizzata. Il giornalismo si mette al servizio delle fondazioni, non della società. e così perde parte della sua autonomia. E siccome le fondazioni non sono miliardari o multinazionali che bisogna sorvegliare, ma costruzioni che sostengono iniziative socialmente utili, questo spostamento degli obbiettivi dalle redazioni alle fondazioni rimane perlopiù nascosto. Il servizio pubblico, per il giornalismo tradizionale by-product del produrre informazione, per il civismo attivista diventa l’obbiettivo primario.

Il solo modo neutrale di sostenere il giornalismo indipendente è una paga basata sui valori di mercato: tutto il resto riflette i desideri sul giornalismo di qualcuno che è fuori dalla redazione, Il finanziamento da parte delle fondazioni induce i giornalisti a focalizzarsi sul messaggio e non sui lettori; è più vicino al marketing e alla propaganda.

Mir chiama “donscription” la donazione sotto forma di sottoscrizione: a differenza di chi si abbona, chi dona non consuma il prodotto che paga. La donazione non è né una beneficienza né una transazione economica, è il costo per il mantenimento di una istituzione. L’effetto sul giornalismo è stato profondo: i media hanno preso a considerare gli abbonamenti come una donazione, e quindi a sentirsi dipendenti dai donanti, e a selezionare i temi più atti a sollecitarne l’adesione. Nel modello “donscription”, il giornalismo è pagato non da chi lo consuma, ma da chi desidera che sia offerto ad altri. Non cerca le notizie, ha bisogno di sapere che esse hanno risonanza nel gruppo, richiede che siano ufficialmente accettate dalla società come valide. Ma il giornalismo non è un notaio: quello che gli abbonati pagano è una tariffa di validazione. L’abbonamento, una transazione economica, muta in diventare membro di un gruppo che supporta una causa. In un certo senso è pagare dal basso per ragioni che vengono dall’alto.

Con il declino dei ricavi, con la ridondanza di offerta di notizie, il giornalismo non più di fatti una di opinioni si è ridotto a scommettere sull’ultima merce disponibile, il posizionamento politico. I media cercano di vendere a un pubblico con una coscienza pubblica abbastanza forte da fare una donazione per una causa. La donscription politicizza i media, introduce un tipo di giornalismo interamente nuovo, il post giornalismo.

La minaccia alla democrazia, o, dall’altra parte, lo sdegno politico hanno un potere assai più motivante che non il mantenimento del giornalismo. Ma davvero i media proteggono la democrazia con i loro articoli così politicamente orientati? Promuovere quello che vende è una delle specificità del giornalismo: con il modello donscription i media promuovono la polarizzazione, non la democrazia.

Fare i clienti contenti o i cittadini arrabbiati?
La pubblicità influenza il contenuto del messaggio: gli inserzionisti pagano i media che offrono un contesto favorevole al marchio, i media adattano i contenuti a ciò che pensano gli inserzionisti desiderino. Negli Usa dopo la Seconda guerra mondiale abbondavano film sulla classe operaia, popolari tra gli ascoltatori, ma poco graditi agli inserzionisti: a metà degli anni 50 spostarono i loro budget verso i film in cui diventava più desiderabile il consumo dei beni pubblicizzati. Fu il consumismo. Tra fine anni 60 e inizio 70 il target si spostò dalla massa ai ceti più abbienti, perché investissero i loro risparmi nei mercati finanziari. Non solo si sviluppò il capitalismo finanziario, ma si assicurò stabilità politica: nel messaggio i problemi sociali erano soppressi ed enfatizzati gli ideali consumistici di una vita più ricca e felice.

Il declino del business dei media e il suo impatto sul giornalismo è stato profondamente analizzato: meno attenzione è stata posta al fenomeno inverso. Quando i ricavi pubblicitari diventano minori di quelli dati dai lettori, cade anche la parete di vetro tra pubblicità e redazione: il marketing interagisce con l’audience. Come può la redazione isolarsi dalla volontà degli abbonati? Che cosa volessero gli inserzionisti era noto: che cosa vuole l’audience pagante?

L’abilità di personalizzare i messaggi ha fatto diventare i social media piattaforme di estrazione di profitti: forniscono un servizio di enorme valore, preciso, veloce, esteso. I dati personali degli utenti raccolti dai social sono la tariffa che pagano volontariamente per essere connessi, e per l’efficienza del messaggio. Non c’è nessun complotto, è l’effetto di un nuovo mezzo entusiasticamente usato da individui e aziende.

Scomparsi gli inserzionisti dal loro radar, i media tradizionali si devono focalizzare sui ricavi da clienti. Questi sono perlopiù cittadini arrabbiati: le notizie gli sono già arrivate con le rassegne stampa, comperano quindi la validazione da un certo punto di vista di notizie che già conoscono. I giornali devono quindi riallineare i loro obbiettivi secondo le aspettative della audience pagante, fargli arrivare i messaggi giusti, e assicurarli che li trasmette ad altri. La donscription trasforma il giornalismo in propaganda crowdfunded, dove il mezzo deve convalidare, giustificare e fornire ad altri l’immagine del inondo che desidera chi paga, mercificando ciò per cui combatte. E’ per questo che i media tradizionali continuarono a mercificare Trump anche quando era chiaro a tutti che questo giovava a Trump.

Nell’epoca dei ricavi pubblicitari, i valori per l’audience erano il guadagno, formazione, dove si lavora e dove si abita, in generale la capacità di acquistare i beni pubblicizzati. Quali sono ora le caratteristiche di un’audience a cui i media chiedono non solo la loro attenzione (conte facevano nel modello basato sulla pubblicità) ma anche di fare donazioni? Non sono necessariamente ricchi, sono psicologicamente inclini a dare, sono colti e abbastanza anziani da essere l’ultima generazione che ancora ricorda i giornali di carta, verosimilmente appartengono a una élite la cui più importante caratteristica è il coinvolgimento politico, l’attenzione al sociale, la coscienza civica. In una parola i concerned citizen. Per i media che vivono di donscription l’obbiettivo non è liberarli dalle loro preoccupazioni, una al contrario renderli sempre più preoccupati. Devono non solo trattare di urgenti problemi sociali, devono amplificare l’irritazione e la frustrazione nel non vederli risolti. I media, “macchina di odio per guadagno”, secondo Elizabeth Warren, devono cavalcare istanze sociali e quindi polarizzare. La democrazia non ci ha guadagnato: i media sono diventati poveri, la democrazia è diventata feroce. I media che vivevano sulla pubblicità producevano clienti felici. I media che vivono dei lettori producono cittadini arrabbiati. I primi servivano al consumismo, i secondi alla polarizzazione.

Produrre rabbia. Il modello “post propaganda”
Il cambiamento comporta un rovesciamento di obbiettivi: creare rabbia, non consenso. Gli inserzionisti cercavano i media che attraevano più lettori in un ambiente favorevole al consumo; quando i media devono cercare i soldi da donatori diventano partigiani e divisi. Il modello basato sulla pubblicità spingeva la società verso un consumo socialmente cieco, quello basato sulle donazioni porterà la società verso estremi iperpoliticizzati e iperpolarizzati di ansietà e rabbia.

La reazione della audience donante può prendere le forme di lettere, telefonate, petizioni, cause, mozioni al congresso: il “fuoco amico” può arrecare danni reputazionali, ridurre le entrate, richiedere spese: la reazione dal basso è diventata un nuovo mezzo di controllo dei media che non è più prerogativa delle élite, ciascuno ha accesso alla formazione di opinioni. L’estensione e la velocità della distribuzione virale danno a un attivista di Twitter il potere che un’élite non ha mai avuto nel passato. Con il modello propaganda i media hanno completato l’inversione da giornalismo di fatti in giornalismo di opinioni. I media non possono vendere le notizie verso il basso, dove già son note. Non possono vendere i progetti verso l’alto, perché commercialmente e politicamente ci sono strade più efficienti. Allora vendono i progetti verso il basso: l’audience paga per sostenere i media che promuovono una causa. Questo modello ha bisogno di più opinioni e di più esperti come fonte primaria dei suoi contenuti. Lo si è visto in nodo massiccio con il Covid-19. Già le elezioni del 2016, o la Brexit non erano stati momenti di gloria dei reporter paragonabili a quelli del Watergate. Lo è stato invece per esperti e commentatori, che predicano invece di informare.

Nella visione marxista, la concentrazione e il controllo societario sono alla base dell’economia politica dei mezzi di comunicazione di massa. La concentrazione è diminuita con le piattaforme sociali: perché le loro dimensione ed estensione sono incomparabili con quelle dei media precedenti; e perché avendo emancipato l’autorialità è aumentato enormemente il potere della pubblica opinione. Quello che conta è la proprietà delle piattaforme: per le informazioni, ci sono nuovi mezzi di produrre e fornirle, lo sharing, gli algoritmi, la viralità. La galassia marxista è stata divorata dall’universo di Marshall McLuhan.

Oggi le notizie non devono essere “fit to print” ma “fit to digital”. I guadagni delle piattaforme dipendono dalle attività degli utenti e quindi i setting delle piattaforme incentivano la radicalizzazione dell’espressione di sé. Questo porta alla polarizzazione, non al consenso con le classi al potere, la tendenza è contro non pro establishment.

Dal mondo com’è al mondo come dovrebbe essere
Alla fine del Ventesimo secolo il business model dei media aveva raggiunto la sua forma ottimale: i giornali vendevano le notizie verso il basso e simultaneamente l’audience verso l’alto agli inserzionisti. Questi contribuivano per il 70 per cento dei ricavi, tanto da fare dei giornali grandi e ricche imprese, pari alle banche e al petrolio, con potere di agenda setting: il giornalismo facilitò il consumismo, la stabilità politica, l’allineamento del popolo alle strategie delle élite. In tal modo fornirono anche un servizio pubblico, di supporto alla democrazia come forma politica del capitalismo.

Internet in 20 anni ha rotto un idillio costruito in 500. Le conseguenze vanno oltre il cambiamento del mezzo e la fine dei giornali. Come sono svanite le condizioni economiche e tecnologiche che avevano consentito il giornalismo, così lo è il giornalismo: e quello che è rimasto è cambiato. I media tradizionali devono combattere contro i nuovi media, e la concorrenza impone regole che li danneggiano: il loro prodotto, che per la sua materialità e periodicità doveva essere lineare e completo, devono ridurlo ai formati adatti al flusso delle notizie sui social. Ma dati i rapporti storici del giornalismo con la sfera pubblica e la politica, i media tradizionali hanno l’autorità di convalidare le notizie. Questa “tassa di validazione” diventa una parte significativa dei ricavi dai lettori. Persa la capacità di vendere le notizie verso il basso e i progetti politici verso l’alto, i media hanno trovato una soluzione di ultima istanza, vendere progetti politici verso il basso. Con la tassa di validazione, il finanziamento di fondazioni, il modello donscription i media sono pagati dal basso; e non per le notizie ma per l’agenda setting, per cui normalmente erano pagati dall’alto.

Un ibrido che fa mutare il giornalismo in attivismo, e trasforma i giornali in mezzi di propaganda. Invece di produrre consumismo e consenso, producono polarizzazione e rabbia. Un ibrido di giornalismo in decadenza che si può chiamare post giornalismo: vende la sua audience al pubblico, chiedendo donazioni in forma di abbonamenti. Il giornalismo classico voleva essere oggettivo, descrivere il inondo com’è; il post giornalismo è normativo, impone il mondo come dovrebbe essere. I media del post giornalismo non producono altro che la l’abbia dell’audience pagante: la loro agenda non prevede il consumo. Neppure prevede la proliferazione di idee e valori, perché quelli che dovrebbe convertire sono già nella stessa bolla cognitiva. La polarizzazione è la condizione ambientale necessaria e il solo prodotto del postgiornalismo, oltre i guadagni dei media.

Quando l’agenda setting era pagato da inserzionisti o da lettori, le redazioni mantenevano tutti i diritti di definire le politiche editoriali. Quando invece è pagato direttamente a quelli che sono disposti a pagare purché certi temi vengano trattati e promossi, ad essere naturalmente selezionati sono quelli che producono non consenso una rabbia, e quindi la polarizzazione della società.

Il servizio pubblico era il by-product del giornalismo, l’autonomia della redazione era assicurata da ricavi dispersi e abbondanti. Anche quando i grandi giornali del passato erano capaci di esigere responsabilità da chi aveva il potere, non hanno mai venduto direttamente questa funzione: il servizio pubblico del giornalismo non era una funzione commerciale. Mantenere la democrazia era un dovere professionale: adeguatamente finanziato, protetto dall’autonomia della redazione, mirato a incrementare il patrimonio reputazionale, il servizio pubblico era ben ad di sopra delle ragioni di scambio. Queste condizioni non ci sono più, il servizio pubblico è offerto dai media in vendita direttamente.

Il rifiuto degli standard
Standard professionali e nonne etiche del giornalismo avevano lo scopo di proteggerne il capitale reputazionale, ma avevano anche una dimensione di business: aumentavano l’influenza dei giornali, quindi il numero dei lettori, quindi il ricavo pubblicitario. Quando al modello basato sulla pubblicità è succeduto quello basato su donscription, la polarizzazione dei racconti diventa un fattore cruciale del successo economico, i giornalisti devono prendere posizione. La cosa diventa evidente con l’elezione di Trump, e la ricerca di chi, oltre ai russi, ne aveva favorito la vittoria: i grandi giornali avevano dato molto spazio alla campagna di Trump, perché era divertente, ma senza analizzarne i programmi, al contrario di Hillary Clinton, trattata come un politico. Ne derivarono due reazioni, una di ignorare l’agenda di Trump, non dargli spazio, ignorarlo; l’altra di riconsiderare la regola della par condicio. Prima del 2016 i media esprimevano i loro giudizi nei commenti, ma nei report seguivano rigorosi standard di imparzialità: col finanziamento da pubblicità l’imparzialità aveva ragioni economiche. Dopo il 2016 non potevano permettersi di non coprire Trump, ultima risorsa della loro declinante popolarità e principale fonte di guadagno per il loro business: ma cambiò certamente la percezione degli standard del giornalismo.

Un’altra ragione per riconsiderare lo standard di imparzialità nel dare a entrambe le parti la stessa considerazione, anche quando è chiaro chi ha ragione, viene con il MeToo: con l’esigenza di ricostruire l’industria dei media su ima base di chiarezza morale inizia il deliberato rifiuto della par condicio. La libertà di parola era un indiscusso valore democratico quando l’accesso alla pubblicazione era limitato, L’emancipazione dalla autorialità ha reso questo accesso tecnicamente disponibile a tutti: ma, come l’eccesso di moneta porta alla sua svalutazione, la libertà di parola non è più un valore supremo. Nasce un alto problema: è davvero un diritto di tutti? anche di un Hitler? Se il monopolio che danaro e potere avevano sulla libertà di parola è degradato a privilegio, ci deve essere la possibilità di regolare l’effettiva libertà di parola su principi di moralità: al posto della diseguaglianza delle condizioni di accesso, la diseguaglianza delle piattaforme: i “cattivi” devono essere de-piattaformizzati. E chi sono i “buoni”? Semplice, sono i nostri. Il post giornalismo ha divorato gli standard di imparzialità e obbiettività, Cambia il modo di porre domande nelle interviste o nelle conferenze stampa. Il giornalismo fa domande, la propaganda afferma, il post giornalismo fa affermazioni sotto forma di domande: “Sta dicendo che..?”.

Concentrazione del discorso
L’economia politica dei mezzi di comunicazione di massa si focalizzava sulla concentrazione della proprietà: per comprendere il post giornalismo bisogna focalizzarsi sulla concentrazione del dibattito. Perché ci sia polarizzazione ci vuole anche un discorso nel quale trovino posto due letture opposte della stessa storia.

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