3 Marzo 2025
Corriere della Sera – Torino
Franco Debenedetti
Presidente
Argomenti / Teoria e scienze sociali
«Adesso le racconto…». Nell’ora abbondante in cui l’Ingegner Franco Debenedetti si è reso disponibile a parlare del suo ultimo libro (Marsilio), Due lingue due vite. I miei anni svizzeri 1943-1945, più volte ha pronuncia to questa frase. Adesso le racconto… e viene da pensare che, soprattutto per qualcuno, una vita sola non basti, per quante esperienze è in grado di vivere e trasmettere. Con Luciano Violante, Assia Neumann Dayan, Piergiorgio Odifreddi e Luca Ricolfi, De benedetti presenta questo singolare libro — incentrato sui diari che scrisse da quando aveva dieci anni con, in filigrana, la Seconda Guerra Mondiale — domani alle 18 al Circolo dei lettori.
Ingegnere, come le è venuto in mente questo lavoro editoriale?
«Lavoro…non esageriamo, è un libretto».
Che nasce come?
«Mio nipote Elia frequentava la quarta elementare di un conservatorio e un giorno la maestra gli chiede: “Perché non domandi a tuo nonno di raccontarci qualcosa su quei giorni?”. Ovviamente, ho detto sì. E, subito, mi sono un pochino pentito».
Perché?
«Non è così semplice spiegare a dei bambini di nove anni chi sono gli ebrei e perché vengono perseguitati».
Da dove è partito?
«Erano gli anni 40, e c’erano stati i primi bombardamenti a Torino. Avevamo firmato l’armistizio e gli inglesi erano sbarcati in Sicilia, i tedeschi presero a invadere l’Italia. Dopo quel bombardamento, mio padre ci nascose in un monastero di suore. Ma non era certo che un cognome come il nostro fosse al sicuro in un monastero e pensò di trovare un posto migliore».
Quale?
«La Svizzera. Si mise a cercare un modo per arrivarci. Il commerciale della sua azienda era morto in un incidente stradale, lasciando un figlio. Mio padre adorava i bambini. E si impegnò a farlo studiare fino all’università. Questo ragazzo era diventato direttore della dogana di Como. Lì, scendeva la ferrovia del Gottardo che era la principale per i tedeschi, per alimentare la campagna d’Italia con le armi e gli uomini. Mio padre immaginò che se c’era un flusso di armi, probabilmente, c’era anche un flusso di persone».
E andò tutto liscio?
«C’è un disegno nel libro (i diari raccolgono scritti ma anche documenti, disegni, passaggi di vita che l’autore ha portato con sé, ovunque, sempre, ndr) con una casa colonica. Il contadino annuncia: ci sono i tedeschi. Mio padre contratta mentre noi ci nascondiamo sotto i letti. Poi ci dice che possiamo andare, attraversiamo 200 metri di prato e arriviamo a una rete divelta, attraversata quella siamo in Svizzera. Io sono passato per primo. Non tutti venivano accettati in Svizzera, c’era troppa gente. Molti, come la Senatrice Segre, sono stati rimandati indietro: capitò anche a dei nostri cugini. Lei la uccisero strappandole la pelle. Lui impazzì di dolore».
In questo libro è vivo il valore della scuola.
«Thomas Mann, uno scrittore che amo, ha scritto a proposito di quegli anni: la scuola è vita. Sono ancora enormemente grato alla mia maestra Basaglia».
Due lingue: cosa ha rappresentato per lei il tedesco?
«Me lo insegnò la sorella di un amico di mio padre. Dieci parole al giorno: un po’ il metodo dell’intelligenza artificiale».
E lo imparò, facilmente.
«A me piace molto parlare tedesco, l’ho amato subito. Mi piace la sintassi complicata, come vengono declinate le parole. Lo ascolto, anche, con grande piacere. È la mia seconda lingua. Qualcuno mi chiede come sia possibile che ami così tanto la lingua di chi ci perseguitava, la lingua che ha rinchiuso Liliana Segre in campo di concentramento. È una domanda pertinente».
Qual è la sua risposta?
«Ho iniziato a leggere quando la Guerra iniziò a girare dall’altra parte, quando gli alleati entrarono e cominciarono a invadere l’Europa e la Germania. Ho imparato il tedesco dalla rovina della Germania».