Antitrust contro Big Tech, se è l'Europa a fare scuola

Lina Khan torna ad applicare il vecchio modello in cui si attacca il gigante perché domina sui piccoli. Ma funziona?

9 Ottobre 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Qualche anno fa l’antitrust europeo si differenziava da quello statunitense perché era più ansioso di portare alla sbarra i giganti dell’information technology. Sembrava dovessero essere gli Usa a fare scuola: l’antitrust, del resto, come il latte condensato e la bomba atomica, è un’invenzione americana. Invece è il modello europeo a venire copiato. L’ultimo caso è quello dell’attacco della Federal Trade Commission (l’agenzia creata nel 1914 per perseguire i «metodi scorretti di concorrenza») ad Amazon. 

L’amministrazione Biden ha nominato alla presidenza della FTC Lina Khan, una giurista trentaquattrenne che era diventata un’icona degli ambienti della sinistra americana dopo aver pubblicato, nel 2017, un libello contro Amazon. La tesi di Khan, che ha coerentemente provato ad applicare dalla FTC, è che quello che era diventato l’approccio tipico della giurisprudenza antitrust negli Stati Uniti, cioè valutare l’appropriatezza o meno di strategie commerciali e comportamento delle imprese sulla base di danni o vantaggi per i consumatori, andava abbandonato. 

Nel mondo delle Big Tech, bisogna applicare lo stesso tipo di antitrust che era stato pensato per la Standard Oil di John D. Rockefeller: ovvero (semplifico) seguire l’equazione concorrenza uguale molti competitor. L’antitrust nasce, negli Usa, per tutelare i «piccoli» dalle impressionanti economie di scala dei «grandi». Secondo Khan, è il momento di ritornare a quell’approccio. Il problema è che intanto economisti e giuristi hanno imparato a pensare in termini di benessere del consumatore ed è quindi difficile uscire da quella retorica. 

Nella sua catilinaria contro Jeff Bezos, Khan ne denunciava i prezzi predatori: l’azienda di Seattle, per consolidare la propria quota di mercato, avrebbe scelto di esigere prezzi troppo bassi, che non coprivano i suoi costi, per alcune tipologie di prodotto, al fine di eliminare i competitor. Cent’anni dopo, gli argomenti erano davvero quelli usati contro Rockefeller. Se non fosse che, a partire dalla metà del secolo scorso, alcuni studiosi misero sotto la lente le accuse a Rockefeller e si accorsero che quella dei prezzi predatori era una teoria claudicante. Si trattava di una strategia insostenibile se non per tempi brevissimi. Infatti, oggi Khan, non più studiosa corsara ma rappresentante della maggiore autorità antitrust del mondo, ribalta il castello di accuse. Se Amazon va alla sbarra non è perché i prezzi che pratica sono troppo bassi bensì troppo alti. 

La pratica anticompetitiva di cui la regina dei negozi on line è accusata è penalizzare i seller, i venditori che la usano come «piattaforma» appunto e che non sono integrati all’interno dell’azienda stessa, nel caso in cui offrano prezzi più contenuti altrove, nel mare magnum di Internet. Amazon peggiorerebbe inoltre l’esperienza del consumatore mettendo troppa pubblicità di articoli affini nelle sue pagine. Ciò suggerirebbe un tentativo di massimizzare i propri profitti a breve, contro la fidelizzazione del consumatore: un obiettivo tradizionale di Amazon, si creda o meno al suo aver fatto prezzi predatori, tutto sommato attestato anche da anni in cui la crescita dell’azienda è stata privilegiata sull’estrazione di utili. 

Amazon oggi vende quattro volte di più di quanto non facesse nel 2017, quando per la prima volta Lina Khan la mise nel mirino. Per quanto Amazon sia grande, non è priva di concorrenti. La quota di commercio elettronico di Walmart è cresciuta in modo simile e piattaforme come Shein guadagnano terreno con offerte diverse, soprattutto nel mondo del fast fashion. 

L’approccio dell’antitrust americano era diventato, nella seconda metà del Novecento, meno «ingegneristico» di quello degli anni di Teddy Roosevelt. L’idea di fondo era che siccome è impossibile prevedere lo sviluppo dei mercati, e siccome nessuno sa a priori quale sia la dimensione «giusta» di una certa impresa, bisognerebbe concentrarsi su quelle prassi che sono nocive della concorrenza perché producono qualcosa di concretamente riscontrabile. Prezzi più alti per il consumatore. Anche dimostrare che una certa strategia peggiori la situazione del cliente non è così facile. Ma, almeno, si puntava su qualcosa che avrebbe dovuto essere misurabile. 

Come si fa a dimostrare che la pubblicità di Amazon, sulle pagine di Amazon, ha peggiorato l’esperienza degli utenti di Amazon? Rispetto a che cosa? Se davvero si sentono sepolti da pubblicità inutile, perché non vanno altrove? La risposta di Khan e dei critici delle Big Tech è che non c’è altro luogo in cui andare. Le grandi piattaforme sarebbero ormai l’equivalente dell’unica strada che collega due luoghi altrimenti irraggiungibili. L’analogia è suggestiva ma non è detto che sia veritiera. 

Dalle diverse librerie on line a eBay ai supermercati che ti portano la spesa a casa, esistono molte alternative ad Amazon. Se il consumatore non le usa per pigrizia, perché è abituato a riempire il carrello da Jeff Bezos, è perché quest’ultimo è un monopolista o perché si trova meglio su quel sito anziché su altri? L’approccio europeo alle Big Tech è quello, forse non a caso, di un continente che grandi imprese dell’ICT non ce ne ha. Le Big Tech e le loro innovazioni sono state a lungo il frutto della distruzione creatrice americana e poi hanno portato benefici ai consumatori di tutto il mondo. E’ possibile che la cosa non abbia nessuna correlazione con le regole antitrust. Speriamo. 

da L’Economia del Corriere della Sera, 9 ottobre 2023

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