Antonio De Viti De Marco, l'arte della finanza

Scarica il nuovo ebook IBL Libri, “De Viti De Marco, dalla scienza alla lotta”

24 Aprile 2014

Linkiesta.it

Luca Tedesco

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Prof. de Viti de Marco, quest’anno cade un importante centenario…
Come scusi?

La Lega del 1914!
Già, la Lega antiprotezionista. Se non ricordo male fu Salvemini a proporla. Oltre a me furono della partita gente come Einaudi, Giretti, Borgatta, Chiesa. Fu una cosa trasversale, che coinvolse liberali, socialisti, radicali, repubblicani. Pure alcuni organi di stampa ci sostennero: «L’Unità», «La Riforma sociale», «La Voce»…. Le nostre bestie nere erano i siderurgici, i cotonieri, gli zuccherieri, i proprietari cerealicoli, tutti soggetti beneficiati dalla tariffa del 1887.

E poco dopo scoppia la guerra mondiale….
Ma noi in quel congresso, era maggio, denunciammo tra l’altro proprio il legame tra nazionalismo, militarismo e protezionismo siderurgico! Guardi, mi faccia cercare un attimo. Ecco, senta qua, le leggo un brano dell’intervento di Giretti al congresso: «Colla Terni e col trust siderurgico italiano è associata la casa inglese Vichers, per la fabbricazione delle artiglierie. L’altra ditta inglese Armstrong era in passato associata con la nostra Ansaldo, la quale si dice ora che abbia fatta una nuova alleanza con trattati più o meno segreti con la francese Schneider del Creuzot, cosicché se domani per disgrazia nostra o per disgrazia altrui dovesse scoppiare una guerra generale in Europa, noi troveremmo e da una parte e dall’altra gli stessi cannoni, i medesimi proiettili magari confezionati nello stesso stabilimento: avremo cannoni inglesi e cannoni tedeschi dalle due parti contendenti!».
E per la battaglia contro il protezionismo non aspettammo certamente la guerra mondiale. La prima Lega antiprotezionista risale a dieci anni prima, al 1904.

Anche lì eravate in compagnia dei socialisti?
Con i socialisti, come anche con le altre forze di quella che allora si chiamava Estrema Sinistra noi ci eravamo opposti alla svolta reazionaria di fine Ottocento (uno storico, Umberto Levra se non sbaglio, in uno suo libro l’ha definita il colpo di Stato della borghesia), ai cannoni di Bava Beccaris, alla limitazione delle libertà previste dallo Statuto, ai provvedimenti eccezionali. Sempre assieme alla Sinistra noi liberisti combattevamo una politica fiscale che colpiva pesantemente i consumi popolari. Poi, i socialisti ce li siamo un po’ persi per strada: loro, al riparo del protezionismo doganale, hanno barattato prezzi più bassi in cambio di salari più alti….

Insomma, lei ha sempre unito lo studio alla battaglia politica…
Già la scienza alla lotta, come recita il titolo di un’antologia di miei scritti uscita pochi giorni fa [sorride]. Beh, la scienza delle finanze ai miei tempi era considerata ancora come un’arte, una sorta di scienza applicata, uno strumento di politica economica. Io ho cercato di definirla come scienza pura, con i suoi principi e metodi, attingendo peraltro al marginalismo che assieme a Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola ho introdotto in Italia.

Beh, con il suo Il Carattere teorico dell’economia finanziaria del 1888 lei è considerato per l’appunto il fondatore della teoria pura della finanza pubblica o sbaglio?
Mah, in verità gli studiosi ancora non si sono messi d’accordo se il fondatore sia il sottoscritto o Emil Sax… Comunque, in quel mio lavoro, come anche nelle mie lezioni universitarie, cercavo di ragionare su quali dovessero essere le condizioni per attribuire o meno la produzione di un bene o servizio allo Stato.

E quali furono le sue conclusioni?
Che, in sostanza, mi permetta di citare una di quelle lezioni, «solo quando il principio del minimo mezzo si prevede meglio attuato dalla produzione di Stato, si giustifica la tendenza a che la produzione d’un bene, che soddisfa un bisogno generale universale, passi dall’economia privata a quella pubblica». Questo, tra l’altro, ha secondo me una conseguenza notevole.

Quale?

Che non si può a priori porre alcun limite alla produzione pubblica di beni e/o servizi , come, evidentemente, non si può porre tale limite neanche ai privati. Il principio del minimo mezzo deve essere la sola stella polare.

Ed oggi, nel nostro Paese, le sembra che quella stella guidi l’azione dei pubblici poteri?
Guardi, per me e gli altri compagni di studio e di lotta [sorride di nuovo…] il cardine su cui dovrebbe fondarsi un governo della cosa pubblica genuinamente liberale è l’adozione di norme generali e universali e il rifiuto, al contrario, di quelle particolaristiche e di atteggiamenti discrezionali e arbitrari finalizzati a interessi di parte. Oggigiorno, nel coacervo di corporazioni e interessi settoriali che condizionano le nostre istituzioni, il rispetto del principio del minimo mezzo mi sembra costituisca l’ultima delle preoccupazioni del decisore pubblico…

CHI È ANTONIO DE VITI DE MARCO
Antonio De Viti de Marco (1858-1943) è stato il fondatore della teoria pura della finanza pubblica. Tale teoria, attingendo alle idee marginaliste che De Viti de Marco – assieme a Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola – contribuì a introdurre nel nostro Paese, divenne anche la base per una critica radicale dello Stato post-unitario.

Nella seconda uscita della collana in eBook “Liberismi italiani”, dal titolo Antonio De Viti de Marco: dalla scienza alla lotta, oltre a un’ampia selezione di brani tratti da Il carattere teorico dell’economia finanziaria vengono riproposte anche alcune delle Cronache che De Viti de Marco scrisse sul Giornale degli economisti nel biennio 1898-9. Il volume è completato da un saggio introduttivo di Luca Tedesco.

La collana “Liberismi italiani” origina dalla consapevolezza che la crisi delle tradizionali culture politiche può aprire, anche e soprattutto nel nostro Paese, stagioni di “riscoperta” di filoni, esperienze culturali, singole figure intellettuali minoritarie o ghettizzate dalle grandi centrali ideologiche novecentesche. L’obiettivo della collana è quello di mettersi sulle tracce, nelle vicende nostrane otto e novecentesche, di quei “liberismi italiani” che rifiutarono di concepirsi come teorizzazioni di uno Stato al servizio di interessi particolari e di spacciare questi ultimi come generali.

Da Linkiesta.it, 24 aprile 2014

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