8 Novembre 2021
La lettura-Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali
Le leggi sull’immigrazione non limitano solo la libertà dei migranti, ma anche quella dei nativi. Chandran Kukathas è a capo della School of Social Science della Singapore Management University. Il suo Arcipelago liberale. Una teoria della diversità e della libertà (2003, tradotto nel 2011 da Liberilibri) era una risposta alle sfide della società multiculturale, vista non come una gerarchia di minoranze, ma come un arcipelago di tante isole che sono le diverse comunità politiche alle quali gli individui possono appartenere. Con Immigration and Freedom (Princeton University Press) egli mette a tema l’immigrazione, nel modo più spiazzante per destra e sinistra.
«Controllare l’immigrazione» non è, per Kukathas, qualcosa che si faccia nei porti, negli aeroporti e nemmeno andando a intercettare le barche degli scafisti. È un obiettivo politico che riduce «la libertà dei cittadini e dei residenti nella misura in cui limita necessariamente ciò che possono fare: chi possono assumere, chi possono fare iscrivere a scuola o all’università e persino chi possono sposare». Forse anche al di là delle loro intenzioni, coloro che propongono rigidi controlli sui migranti non si limitano a occuparsi «di stranieri che attraversano le frontiere. Regolamentare l’immigrazione non riguarda solo il modo in cui le persone arrivano, ma quello che fanno una volta entrate in un Paese. Si tratta di accertare quanto tempo le persone si fermano in quel luogo, dove viaggiano e cosa fanno. Soprattutto, significa controllare se e per chi lavorano, quanto vengono pagati, cosa debbono fare per continuare a lavorare. Questo non è possibile senza controllare i cittadini e i residenti, che devono essere monitorati e sorvegliati per assicurarsi che rispettino le leggi sull’immigrazione».
Nel suo libro, lei paragona i controlli sull’immigrazione all’apartheid…
«L’apartheid nasce per controllare chi poteva entrare in Sudafrica dai bantustan, aree dove erano confinati i neri. Le cosiddette “leggi del passo”, apparse per la prima volta nel XIX secolo per limitare e controllare il movimento della manodopera nera, si ampliarono fino a ingiungere agli africani di portare con sé documenti circa il curriculum lavorativo, lo stato civile, le tasse pagate e il luogo ufficiale di residenza. Non avere con sé il dompas divenne a un certo punto un reato punibile con una pena detentiva. A partire dal 1970 anche i bianchi ricevettero documenti simili. Lo scopo della mia analogia non è però quello di suggerire che le democrazie occidentali che controllano l’immigrazione siano Stati razzisti, come lo era il Sudafrica».
Qual è il punto, allora?
«Voglio attirare l’attenzione sul fatto che, anche quando è possibile identificare facilmente alcune persone, dal colore della pelle o da altre caratteristiche visibili, non è facile controllarle senza controllare anche tutte le altre. Nel caso sudafricano, ciò ha richiesto una struttura istituzionale che implicava il controllo di tutti. Significava monitorare i giornali bianchi, proibire i matrimoni misti, controllare i media locali e quelli stranieri, censurare libri, film e musica, usare la forza contro tutti i cittadini».
C’è un’analogia anche fra gli obiettivi di quella società e quelli dei Paesi occidentali che oggi, in vario modo, tutti limitano l’immigrazione?
«Forse il terreno comune riguarda il fatto che si vuole da una parte mantenere uno stabile afflusso di forza lavoro, ma dall’altra evitare che questa forza lavoro trasformi la società. Io non credo che l’immigrazione avrà come conseguenza la trasformazione di società moderne come quella francese o quella inglese in società dove esistono dei ghetti. L’analogia con l’apartheid non vuole significare che l’Occidente stia diventando “razzista”. Non penso tanto alle conseguenze che quella forma di discriminazione legalizzata ebbe sulle persone di colore, che sono autoevidenti. Penso alle conseguenze che ebbe su tutti gli altri: cioè un livello più elevato di sorveglianza da parte delle istituzioni pubbliche».
Se dovesse rimettere mano al libro dopo l’esperienza della pandemia e degli strumenti con cui abbiamo provato a contrastarla, inclusi i nuovi limiti imposti alla libertà di movimento delle persone, che cosa aggiungerebbe?
«Con il Covid, gran parte del controllo ai movimenti della popolazione è stato all’interno dei diversi Paesi. Ma il controllo dell’immigrazione ha poco a che fare con i limiti alla libertà di movimento. Con la pandemia, abbiamo avuto controlli alle frontiere più stringenti, ma l’impatto sulle politiche migratorie è stato abbastanza limitato. Agli Stati sta bene che le persone si muovano, ciò che non vogliono è che esse facciano certe cose: non vogliono che entrino nel mercato del lavoro o aprano un conto corrente o comprino una casa o incomincino l’università senza permesso. Ci sono 380 mila persone l’anno che entrano nei confini americani e gli Stati Uniti sono contentissimi che vi entrino, purché non facciano tutta una serie di cose… Il Covid ci ha ricordato quanto la società sia ormai abituata a tutta una serie di controlli e ne accetti di più senza grosse difficoltà. Alcune cose che pensavamo dovessero valere solo per gli immigrati — che venissero fermati alla frontiera o costretti alla quarantena — le abbiamo accettate con una certa docilità anche per tutti gli altri».
La filosofia politica si occupa abbastanza di immigrazione?
«Purtroppo no. Credo che il mio libro sia il primo dedicato a un esame di una certa portata su questa questione. Spero non sia l’ultimo».
da La Lettura – Corriere della Sera, 8 novembre 2021