Gli obblighi di investimento e programmazione «in capo agli operatori media, e soprattutto ai broadcaster con l’intento di perseguire l’obiettivo di promozione e sviluppo dell’originai content nazionale ed europeo» sono obsoleti. L’istituto Bruno Leoni ed eMedia Institute parlano di «traduzione inefficace di un intento politico in un obbligo».
È un giudizio severo quello espresso nel Rapporto IBL ed e-Media Institute presentato ieri su “Il Sistema Audiovisivo“. Arrivato alla sua terza edizione, il Rapporto ha affiancato alla parte descrittiva di dimensioni del mercato e degli attori economici, una seconda parte con approfondimento del “Decreto quote” (DIgs 204/2017) sugli obblighi di investimento e programmazione per tv, ma anche Ott.
Il giudizio tranchant, a sentire i redattori dello studio, è sulle quote di investimento come sulle quote di programmazione, anche se dal punto di vista dei numeri l’analisi viene fatta sui soli effetti (e quindi sulle diseconomie) degli obblighi di programmazione. Il tutto in una partita in cui broadcaster e produttori si sono confrontati anche aspramente l’anno scorso su quella che rappresenta l’attuazione della Legge sul cinema e l’audiovisivo (la legge Franceschini) nella parte in cui è richiesta la riscrittura dell’articolo 44 del Tusmar.
Gli effetti inizieranno a verificarsi dal 2019. E per quanto riguarda gli Over the top, a quanto risulta al Sole 24 Ore, Agcom dovrà dire la sua. Al momento sono in corso audizioni e l’idea è che l’Authority possa chiedere un catalogo per il 30% fatto da opere italiane ed europee.
A conti fatti, esaminando le evoluzioni dei budget delle produzioni e con confronti internazionali su ciò che avviene in altri Paesi, il Rapporto arriva comunque a conclusioni amare: la screen quota, e quindi l’obbligo di programmazione, «stimola una produzione di titoli spesso a basso costo e basso valore di attrazione» e inoltre «la moltiplicazione dei titoli prodotti non corrisponde per forza di cose alla crescita del mercato». In pratica un contesto artificiale che può risultare tanto più pericoloso in un sistema audiovisivo che si trova a un punto di svolta: in ripresa dopo la crisi del 2014 (grazie in gran parte al canone Rai in bolletta) ma sottoposto agli effetti della digital transformation.
I numeri dicono che nel 2016, in Italia, il sistema della comunicazione mediale ha raggiunto il valore di circa 58 miliardi. All’interno di tale ambito, il settore editoriale (televisione, radio, cinema, home video, videogiochi, musica preregistrata, carta stampata e Internet) ha attirato nel 2016 risorse per 24,1 miliardi: +2% su base annua e riportandosi ai livelli del 2013. Sempre considerando i valori correnti, il monte risorse del settore dei contenuti editoriali nel 2010 raggiungeva i 28 miliardi.
da Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2018