Auto, dazi anti-Cina, pagano i consumatori

Com'è possibile che i dazi siano tornati di moda, nei sistemi che sulla fine delle barriere ai commerci hanno basato il loro sviluppo?

5 Luglio 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Economia e Mercato

L’Ue vuole metterli anche per i beni a basso costo acquistati sulle cinesi Temu, Shein e AliExpress. Le scelte dell’Europa giungono dopo quelle, ancora più radicali, degli Usa.

Da oggi, dazi europei gravano sulle macchine elettriche importate dai cinesi Byd, Geely, Saic. L’Ue vuole metterli anche per i beni a basso costo acquistati sulle cinesi Temu, Shein e AliExpress. Le scelte dell’Europa giungono dopo quelle, ancora più radicali, degli Usa, in cui Biden ha annunciato dazi sui prodotti dalla Cina, proseguendo la politica che Trump ha inaugurato sotto lo slogan make America great again. Non a caso, durante la campagna elettorale i due fanno a gara a prometterne sempre di più alti.

Se queste sono le economie libere, figurarsi le altre.

Come è possibile che si sia generata questa distanza tra l’ampia convergenza della letteratura economica circa gli effetti negativi dei dazi e la contraria uniformità delle scelte politiche, da destra a sinistra, dai repubblicani ai democratici, dall’Europa all’America?

La risposta presuppone un’altra domanda: com’è possibile che i dazi siano tornati così di moda, proprio nei sistemi democratici di libero mercato che sulla fine delle barriere ai commerci internazionali hanno basato il loro sviluppo negli ultimi decenni?

Partendo dalla seconda domanda, il villaggio globale ci è piaciuto finché non ci siamo resi conto che dei e dai suoi benefici potevano trarre forza anche le altre economie del mondo. Un discorso un po’ comodo, ma che ha un risvolto più delicato: poiché le principali delle altre economie non danno sufficienti garanzie di rispetto dei diritti e dell’ordine democratico che faticosamente abbiamo costruito, abbiamo qualche motivo di preoccupazione più profondo rispetto a quello di essere messi in seconda fila.

Se è giusto che i nostri governi si preoccupino del destino dei valori di libertà e tutela dei diritti che si accoppiano ai nostri sistemi di mercato, bisogna chiedersi se i dazi sono uno strumento utile allo scopo.

Da qui, la prima domanda: perché Ue e Usa prendono sul serio i dazi, se l’evidenza economica non lo fa?

In teoria, i dazi aumentano il prezzo dei beni importati e quindi la competitività della produzione domestica, specie nei mercati grandi come quello statunitense e europeo.

In pratica, però, gli effetti non sono così lineari: provocano una politica di ritorsione dei paesi esportatori; colpiscono le preferenze dei consumatori, perché non necessariamente i beni importati sono (immediatamente) sostituibili con beni prodotti internamente; possono proteggere settori interni inefficienti; ridurre l’efficienza dei mercati domestici, costretti a riconvertire la loro produzione su beni su cui non sono specializzati; interrompere le catene di valore; infine – a voler alzare lo sguardo dai problemi di casa nostra – ridurre lo sviluppo delle economie in via di consolidamento, essenziale anche per la nostra sicurezza.

Le democrazie europee e americana, in questo momento, sembrano fare la parte di Davide contro Golia.

Le società chiuse bussano minacciose alle nostre porte, ma imporre i dazi equivale a provare a fermarle con la semplice imposizione delle mani.

Il protezionismo del XXI secolo, si dirà, è anche una questione di sicurezza e di tutela di ciò a cui siamo più affezionati: l’ordine democratico che si accompagna a quello economico. Ma la storia degli scambi e delle guerre (commerciali e tradizionali) ha mostrato come sono i primi ad aumentare la garanzia di benessere e democrazia.

Tornare a chiuderci difficilmente sarà un passo avanti verso la crescita economica, e c’è da dubitare che lo possa essere anche verso il consolidamento dell’ordine democratico, dentro e fuori dai nostri confini.

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