Le imprese sono state obbligate a puntare tutto su una tecnologia, l’elettrico, sulla quale non avevano esperienza o vantaggi particolari
Siamo un Paese di santi, di poeti, navigatori, commissari tecnici della Nazionale e amministratori delegati di Stellantis. Dimessosi Carlos Tavares le pagine dei giornali si sono riempite di piani industriali alternativi.
Sembrerebbe, a leggere i commentatori, che fare l’AD di un grande gruppo automobilistico sia un gioco da ragazzi. Oltreoceano, il Wall Street Journal ha paragonato Tavares a Gelsinger, il CEO di Intel che lui pure si è dimesso dalla carica. L’uno e l’altro avrebbero puntato troppo sulle “politiche industriali”, ovvero su sussidi volti a sostenere particolari produzioni: i chip per recuperare sulla concorrenza cinese in un caso, l’auto elettrica nell’altro. La politica italiana è in fibrillazione per Stellantis e ovviamente è una gara a chiedere altre “politiche industriali” e altri sussidi, previa genuflessione di John Elkann in Parlamento.
La crisi dell’auto non riguarda solo Stellantis. In Germania gli operai di Volkswagen scioperano contro i tagli. Non c’e un solo gruppo automobilistico europeo che abbia una performance brillante. La chiave di tutto sta, purtroppo, in quell’aggettivo: europeo. Se l’esperienza insegnasse qualcosa, mai come questa volta dovremmo convincerci che mentre non è chiaro se le istituzioni possono spingere la crescita, è evidente che la possono frenare. La situazione in cui si trova oggi l’automotive europeo non era imprevedibile e non dovrebbe essere sorprendente.
La dobbiamo a due cose: politiche industriali e politica monetaria. Le autorità politiche hanno deciso di combattere il cambiamento climatico mandando in pensione con la forza il motore a scoppio. Il problema non è la transizione verde di per sé, ma l’approccio dirigista, l’idea che gli obiettivi possano essere raggiunti solo seguendo la tabella di marcia decisa dalla politica.
Le imprese sono state obbligate a puntare tutto su una tecnologia, l’elettrico, sulla quale non avevano esperienza o vantaggi particolari e che un grande produttore come Toyota vedeva con scetticismo. Vent’anni di innovazione su motori e carburanti (il cui frutto maturo è l’Euro 7) sono stati buttati via. L’Europa si è data un punto di non ritorno, il 2035, oltre il quale le auto a benzina e gasolio non potranno più essere commercializzate (una scelta senza precedenti, nel mondo industriale).
Adesso qualcuno sostiene la necessità di nuovi sussidi per ringiovanire il parco macchine, anche non elettrico. Ma lo switch off del 2035 influenza il giudizio dei consumatori. Chi può rinvia e rinvierà l’acquisto di un nuovo veicolo. I timori sono molti e comprensibili: quanto tempo passerà dal divieto di vendita di nuovi modelli, al divieto di circolazione? Cosa ne sarà della rete dei distributori di benzina? Che avverrà al prezzo dell’usato?
Il prezzo medio dei veicoli nuovi è attorno ai 29 mila euro, contro i 21 mila prima del Covid. Le difficoltà nella ripresa della produzione dopo la pandemia e il ritorno di fiamma di una domanda “liberata” dai lockdown portavano necessariamente a un aumento dei prezzi.
L’aver inondato i mercati di denaro per anni lo ha consentito, a livelli oggettivamente proibitivi in un Paese dove il reddito medio è 33 mila euro.
Verrebbe da dire: missione compiuta. Abbiamo ridotto l’offerta di auto a motore a scoppio e le abbiamo trasformate in oggetti di lusso. L’obiettivo non era ridurre il numero di veicoli inquinanti in circolazione? Solo ora ci si accorge che nel mentre abbiamo avuto qualche danni) collaterale. L’industria automobilistica europea, orgoglio del Continente, non può più far leva sull’esperienza secolare col motore a scoppio. L’innovazione non avviene a comando e non si presenta all’orario concordato: per cui Cina e Usa sull’elettrico ci superano.
Per alcuni la soluzione è fare entrare lo Stato nel capitale di Stellantis. Così oltre a dover gestire il problema nelle sue dimensioni sociali potremo anche condividere le perdite degli azionisti.