25 Novembre 2024
La Stampa
Serena Sileoni
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Due piccioni con una fava. Potrebbe essere questa l’espressione che meglio sintetizza l’esito della sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata per Giorgia Meloni. Delle tre riforme istituzionali nell’agenda di governo, la questione regionale, come indica il cognome con cui la legge Calderoli è nota, è quella in quota Lega. E poiché in politica i dettagli contano, una battuta di arresto per la Lega non è necessariamente tale per il governo, ma potrebbe anzi essere una tregua per Meloni. La Consulta non mette in discussione l’intera legge, cosa che non sorprende dal momento che comunque si tratta di un provvedimento attuativo di un principio costituzionale.
Al tempo stesso, però, è possibile, se non probabile, che i profili di illegittimità già resi chiari dal comunicato stampa della Corte porteranno per la loro pervasività a interrompere il percorso referendario per l’abrogazione della legge. O meglio, le possibilità che non si vada a votare sono più alte di prima. E questo, più che essere un inciampo, sarebbe un risultato due volte buono per la Presidente Meloni. In primo luogo, perché eviterebbe al governo di dover affrontare un referendum difficile. Il dibattito intorno alla legge e alla raccolta delle firme per la sua abrogazione ha esasperato una storica divisione tra regioni e ragioni “federaliste”, che continua a dividere in due lo stivale italiano. Il voto sarebbe probabilmente più partecipato del solito, specie al Sud, dove la legge viene ritenuta una minaccia all’unità e al superamento della questione meridionale. La volontà dell’opposizione, e in particolare del Partito democratico, di sostenere sia la strada dei ricorsi diretti delle quattro regioni guidate da partiti di opposizione sia i promotori del referendum abrogativo appare oggi più di ieri frettolosa, tanto quanto quella della Lega di approvare una legge che fin da subito mostrava significativi profili di dubbia costituzionalità. Un approccio più strategico avrebbe forse dovuto sconsigliare di intraprendere entrambe le vie, per portare gli italiani a un voto popolare da cui la maggioranza di governo avrebbe faticato a uscire indenne. Si comprende, quindi, la nettezza con cui il ministro della giustizia Nordio ha dichiarato che la sentenza dovrebbe “eliminare, almeno per ora, la possibilità del referendum” e produrre un avanzamento “anche di anni” verso una soluzione per l’autonomia. Se questo è il primo piccione, il secondo riguarda l’agenda delle riforme istituzionali: premierato, autonomia differenziata, magistratura. È noto come il premierato sia per Meloni la madre di tutte le riforme, lo zenit del suo mandato. Tuttavia, è ancora irrisolto nella sua condizione essenziale: la riforma elettorale. Soprattutto per questo, cammin facendo la strada si è fatta più complicata. Ma la sentenza sull’autonomia differenziata rimette in discussione la triangolazione delle riforme.
Il fatto che la Lega sia la principale destinataria politica della decisione impone un ricalcolo della loro agenda, necessario a Meloni per evitare che il suo alleato esca eccessivamente provato dal giudizio della Consulta e al tempo stesso utile a temporeggiare sul premierato. In sostanza, Meloni ha come sempre bisogno di stare un passo avanti rispetto a Salvini, facendo però attenzione a non lasciarlo troppo in dietro e rompere così gli equilibri interni alla maggioranza. Per riuscirci, dovrà dare priorità alle modifiche della legge Calderoli e, con un gesto di apparente generosità politica verso l’alleato, rimandare la discussione sul premierato. Una riforma a cui Meloni certo non può e non vuole rinunciare, ma che le farebbe comodo spostare in là verso la seconda metà se non la fine della legislatura, sia per avere più tempo per definire il sistema elettorale, sia per gestire l’eventuale referendum nel pieno vigore di una nuova legislatura, o non doverlo gestire affatto.