Autonomia: una sfida dimenticata

A un anno dai referendum in Lombardia e Veneto, la richiesta di maggiore autonomia è ancora in stallo

22 Ottobre 2018

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Un anno fa Lombardia e Veneto votavano il referendum sull’autonomia. La consultazione, priva di effetti diretti, serviva a Maroni e Zaia per guadagnarsi la benedizione popolare a una strategia di confronto serrato con il governo centrale.

Gli scettici accusavano i due leader di aver giocato sulle ambiguità di una complessa questione costituzionale.
Per nulla ambiguo il responso delle urne: il 98% dei veneti (con un’affluenza del 57%) e il 96% dei lombardi (con un’affluenza di poco inferiore al 40%) esprimevano, in buona sostanza, una preferenza per l’autogoverno. Senza essere raffinati tecnici del diritto, dicevano che, dovendo scegliere fra Regione e governo centrale, preferivano essere sottoposti quanto più possibile alla prima e quanto meno al secondo.
Non è facile trasformare questo desiderio in qualcosa di più e forse la delusione è inevitabile.

La sfida delle autonomie è duplice: da una parte, c’è l’obiettivo di negoziare nuove competenze per l’amministrazione regionale, secondo l’iter previsto dall’art. 116 della Costituzione. Dall’altra, c’è l’ambizione di conquistare l’eternamente procrastinato federalismo fiscale, l’ambizione di rovesciare la piramide tributaria per cui i soldi del contribuente finiscono a Roma, prima di tornare sul territorio.

Un anno dopo, nonostante gli sforzi di Maroni, Fontana e Zaia, come ricordava ieri La Stampa il bilancio è misero. Dopo la pre-intesa firmata con l’allora primo ministro Gentiloni a febbraio, il processo è andato a rilento. È vero, ne parla il contratto di governo e nella Nota di aggiornamento al Def l’autonomia differenziale è definita «una priorità». Iniziative concrete, però, per ora non se ne sono viste.

Nulla di nuovo sotto il sole: la nostra è una Repubblica fondata su una divergenza permanente fra Nord e Sud. Nel 2016 il reddito pro capite al Sud era il 44,2% inferiore che al Centro-Nord. Il divario è profondo e da sempre l’idea è sanarlo ricorrendo a trasferimenti dalla parte «ricca» alla parte «povera» del Paese. Siccome la strategia è la stessa almeno dagli Anni Sessanta, il fatto che la frattura si allarghi e non si chiuda forse qualche dubbio sull’efficacia del rimedio dovrebbe farcelo venire. E tuttavia il provvedimento più importante della legge di bilancio, l’introduzione del reddito di cittadinanza, va di nuovo nella medesima direzione: i potenziali beneficiari sono infatti concentrati al Sud.

Che farà il Nord? Qualche voce dissonante si fa sentire, come il presidente di Assolombarda Bonomi che ha chiesto più autonomia «per trainare meglio l’Italia intera».
E’ un po’ difficile sostenere che la locomotiva non sia rallentata dai troppi trasferimenti. Siccome la spesa pubblica si assomiglia un po’ dappertutto (lo stesso numero di persone impiegheranno, a parità di dimensione, scuole e ospedali, il numero di volanti della polizia per km sarà il medesimo, eccetera) ma le imposte pagate sono di più laddove il reddito è più elevato, è normale che il Meridione riceva più di quanto dà e il Nord dia più di quanto riceve. Ma si calcola che le tasse pagate dalla Lombardia superino la spesa pubblica di cui beneficia di 54 miliardi: più di dieci volte le spese previste per l’accoglienza ai migranti.
Di queste istanze, la Lega ha avuto il monopolio per molto tempo, non sempre venendo incontro alle aspettative degli elettori. È paradossalmente più difficile, per i governatori di Lombardia e Veneto, negoziare in modo serrato con un governo amico che con uno ostile. La forte redistribuzione territoriale è però un dato difficile da ignorare, e per forza genera una domanda di autogoverno. Fino a quando sarà possibile ignorarla?

Da La Stampa, 22 ottobre 2018

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