Ayn Rand è una scrittrice e filosofa poco conosciuta in Italia. Notevole è invece stata e continua ad essere la sua fortuna negli Stati Uniti, ove si trasferì per motivi politici a venti anni (era nata a San Pietroburgo nel 1905, morì a New York nel 1982). Attraverso un percorso non lineare, che la vide anche sceneggiatrice e poi romanziera di successo, in America la Rand riuscì ad elaborare un vero e proprio e affascinante sistema di pensiero che chiamò «oggettivismo». Il suo fascino è probabilmente nella radicalità estrema, al limite del paradosso, con cui sviluppa un motivo che era già presente nel pensiero liberale e soprattutto libertario: la centralità e unicità dell’individuo, fine morale e punto di riferimento ultimo di ogni concezione sociale e politica.
La monografia
Di Ayn Rand è appena uscita ora in Italia una monografia che ne ripercorre il pensiero con serietà e rigore, oltre che direi con umana empatia. Ne è autrice una docente della Sapienza, Diana Thermes, ed è pubblicata dalle edizioni dell’Istituto Bruno Leoni col titolo, non molto felice perché richiama polemiche italiane attuali che poco c’entrano con questa filosofa, di Ayn Rand e il fascismo eterno. Una narrazione distopica (pagine 336, euro 20). In verità, solo in età matura la Rand ha sistemato le sue idee in saggi. Per lo più la sua filosofia è affidata a due grandi romanzi, veri e propri best-seller: La fonte meravigliosa, del 1943 (da cui fu tratto un film con protagonista Gary Cooper) e La rivolta di Atlante, del 1957. La forma narrativa, in effetti, molto si prestava a mettere a fuoco la mentalità delle persone che avevano fatto dell’individualismo il loro faro di vita rispetto a quelle che invece seguivano il collettivismo. E, quindi, a dimostrare la superiorità morale dei primi, creatori di felicità per sé e per gli altri.
Certo, l’opera di Rand ha ancora oggi successo per la critica implacabile in essa contenuta di ogni forma di collettivismo e socialismo, ma molto interessante risulta essere l’immagine dell’individuo che ne viene fuori: una sorta di eroe impegnato a costruirsi la vita con le proprie mani, in costante lotta con le forze avverse che gli ostacolano il cammino; ma anche un individuo egoista che misura il proprio successo dalla ricchezza che è riuscito ad accumulare e dalla possibilità che in questo modo si è creato di rendere felici, con la filantropia, anche gli altri (La virtù dell’egoismo è un saggio del 1964).
Il capitalismo è perciò per Rand, che ha anche scritto un elogio dell’imprenditore, il sistema economico più razionale. Esso va difeso da quelle tendenze socialiste che affiorano ogni tanto anche nella sua patria d’elezione: l’America. La Rand fa propri molti motivi, come dimostra Diana Thermes, della critica al conformismo e alla standardizzazione che altri autori (anche i marxisti della Scuola di Francoforte) sviluppavano nel suo tempo: il rischio era che la mentalità totalitaria, o “fascista” in senso lato, alla fine trionfasse anche nelle nostre lande.
Forze convergenti
A tal proposito, individuò due forze convergenti che portano in questa direzione: una, scrive Thermes, «che proviene dall’alto, dagli intellettuali, che giocano d’astuzia per pura ambizione intellettuale, e dagli apparati istituzionali, che combinano propaganda e brutalità; e una forza che proviene dal basso, dagli individui standardizzati della società di massa, equalizzati, deprivati dell’autostima, fiaccati nel senso di colpa, inebetiti dalla propaganda della stupidità, , pronti a servire con accondiscendenza». Ripeto: il pensiero della Rand, vera teorica del way of life americano preso nella sua purezza idealità, è affascinante.
Che convinca fino in fondo, non mi sentirei però di dirlo. Prima di tutto, perché non tiene conto del fatto che l’individuo stesso, considerato fra l’altro come una monade, è un prodotto storico e non un dato ultimo e originario; secondariamente, perché l’estrema razionalità utilitaristica con cui, nel suo ideale, egli dovrebbe agire contrasta con la forza delle passioni e dei rapporti di forza che sono inscindibili dalla condizione umana e rendono molto più drammatica, e meno lineare, la nostra continua lotta per conquistare spazi di libertà.
Il liberale, certo, crede nell’individuo, ma c’è una teologia individualistica che può creare, a mio avviso, effetti illiberali imprevisti. Ogni concetto, anche quello di individuo, per manifestare i suoi effetti positivi non può mai superare nella difesa che se ne fa un certo “punto critico”, come ci ha insegnato fra gli altri Luigi Einaudi.
da Libero, 31 gennaio 2022