Banche libere e meno tasse: il ritorno della «deregulation»

Il neopresidente Usa vuole ridurre i vincoli degli enti finanziari. Più investimenti e sostegno alle imprese

14 Novembre 2016

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è destinata a mutare in maniera significativa non solo lo scenario politico globale, ma anche quello finanziario. E sebbene il miliardario si sia imposto puntando più su Main Street (la gente comune) che su Wall Street (l’élite finanziaria, apertamente avversa alla sua candidatura), è pur vero che ora potrebbe aprirsi una fase di liberalizzazione dei mercati con conseguenze rilevanti su banche e speculazione.

E così mentre l’Europa di Juncker e della Bce resta dirigista, l’America potrebbe almeno in parte ritrovare lo spirito liberale di quell’ottimismo reaganiano che l’aveva caratterizzata negli anni Ottanta. Intervistato da The Wall Street Journal poche ore dopo la vittoria, Trump ha sostenuto che una delle prime cose che egli intende fare è avviare una deregulation delle istituzioni finanziarie. Nella visione che domina i suoi discorsi, è chiaro come il nuovo inquilino della Casa Bianca voglia essere l’interprete di una società che riprende a costruire, investire, scommettere sulle idee. Le banche devono quindi essere più libere di agire e le imprese devono subire una minore tassazione, specie se riporteranno negli Usa una parte dei loro capitali e daranno più lavoro agli statunitensi.

Per dare maggiore spazio di manovra agli istituti di credito Trump intende mettere in discussione la Dodd Frank del 2010, con quella «Volcker rule» che vieta alle banche ordinarie di assumere posizioni speculative e che egli ha definito un pesantissimo fardello per le aziende del settore. Quella legge, voluta da Barack Obama con l’obiettivo di «proteggere i consumatori», si propone di limitare gli investimenti speculativi, accusati di avere causato la crisi finanziaria del 2007.

La logica della norma è dirigista e paternalista, restringendo gli spazi d’azione delle banche, e la sua abolizione sarebbe salutata con grande favore dal settore creditizio. Non tutto però è chiaro nel disegno di Trump. Se da un lato egli parla di liberalizzazioni anche in tema di finanza, dall’altro potrebbe non rinunciare all’idea di restaurare il Glass Steagall Act, quella normativa abolita solo nel 1999 che era stata varata dopo la crisi del ’29 e che per molti decenni aveva alzato un muro assai alto tra banche d’affari e commerciali.

Se davvero egli si dirigesse in tale direzione saremmo davvero dinanzi a una politica schizofrenica: che liberalizza in talune aree della finanza per limitare la libertà d’impresa in altre. Molto dipenderà ovviamente dal rapporto che si verrà a instaurare tra Trump e il Congresso, ma anche tra il nuovo presidente e altre istituzioni cruciali: basti pensare alla Fed, la banca centrale.

Da questo punto di vista già prima delle elezioni sembrava abbastanza chiaro che l’America si stesse orientando – pure qui in contrasto con quanto avviene in Europa – verso un rialzo dei tassi. Anche Trump – e questo è essenziale per capire quale potrà essere lo sviluppo dell’economia – sembra persuaso che la politica del «denaro facile» abbia riempito il mondo di dollari e posto le premesse per una bolla destinata a generare una grave crisi.

Seppure in maniera non del tutto lineare, allora, Trump e la maggioranza parlamentare repubblicana paiono orientati a prefigurare un futuro di liberalizzazioni per banche e finanza, entro un quadro in cui le imposte dovranno calare e le regole dovranno essere sfoltite. Dall’altro lato dell’Atlantico, invece, governi e Bce continuano a perseguire logiche interventiste, in un quadro reso problematico da una politica monetaria che Mario Draghi continua a gestire secondo logiche keynesiane. L’Europa rischia di perdere un altro treno.

Da Il Giornale, 13 novembre 2016

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