Se i banchieri temono l'esito delle elezioni

L'ingerenza della banca d'affari che giudica rischioso per il debito l'esito delle elezioni 2023

1 Giugno 2022

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il debito pubblico rappresenta una minaccia per l’Italia, ma certo è ben poco sensato che Goldman Sachs usi quest’argomento per difendere l’attuale assetto politico (costruito sull’asse Mattarella-Pd-Draghi) e mettere in guardia da una vittoria elettorale del centrodestra.

In un suo studio la banca d’affari dice qualcosa di ovvio quando rileva che «i rendimenti nell’Eurozona sono saliti in modo marcato, riportando la sostenibilità del debito dell’Europa meridionale di nuovo all’attenzione del mercato». Nel momento in cui vede possibili minacce dalle prossime elezioni (riferendosi a Spagna, Grecia e soprattutto Italia) essa dovrebbe però partire da qualche dato oggettivo, perché non regge proprio la contrapposizione che evoca tra un’Italia ragionevole (quella progressista) e una populista (quella schierata a destra).

Se stiamo ai fatti, le principali responsabilità del debito sono infatti da addebitare alla sinistra di governo. Il Pd non soltanto gioca un ruolo dominante nell’esecutivo attuale come in quello che l’ha preceduto (Draghi e Conte II), ma aveva una posizione egemone pure quando premier erano Gentiloni, Renzi, Letta e prima ancora Monti. Insomma, a parte la parentesi gialloverde, la sinistra postcomunista governa l’Italia dal novembre 2011: e in quel momento il debito italiano era inferiore al 120% del Pil, mentre adesso veleggia verso il 160%.

Se le cose stanno così, perché gli analisti della banca newyorkese, che nel 2010 fu multata per oltre mezzo miliardo di dollari a seguito di una frode ai danni dei risparmiatori, sembrano voler premiare i colpevoli? E, soprattutto, per quale motivo esprimono un tale consenso nei riguardi del governo attuale, mettendo in guardia dall’esito del voto del 2023? La ragione è che certamente esiste uno statalismo straccione, ma non va dimenticato quello in doppiopetto.

Un po’ maliziosamente qualcuno potrebbe ricordare come Draghi, dopo avere lasciato Bankitalia, sia stato managing director e anche vicepresidente della banca. Le vere questioni, però sono altre, dato che al di là dei singoli personaggi e dei loro rapporti interpersonali ciò che conta veramente è la cultura dirigista che prevale all’interno delle élites contemporanee e l’intreccio d’interessi che innerva l’attuale assetto di potere.

È ormai evidente a molti come taluni gruppi d’interesse, che in Italia hanno quale loro referente principale (ma non esclusivo) il Pd e in altri contesti nazionali i corrispettivi interpreti del progressismo liberal, sposino una logica che include investimenti pubblici, politiche monetarie molto attive e una crescente espansione delle regole, così da godere dei benefici derivanti dal condizionamento di quelle scelte. Chi in questi anni ha «catturato» il regolatore non vuole correre rischi e quindi è pronto ad affermare, come fa questo studio, che l’Italia sarebbe «il Paese più a rischio di una rottura politica». Quanto tutto ciò sia pretestuoso lo si capisce quando la nota imputa a Matteo Salvini e Giorgia Meloni di essere euroscettici. Dovrebbe però essere chiaro come in questi anni l’Unione sia stata un fattore di deresponsabilizzazione della nostra politica, permettendo a Roma di scaricare sui partner più virtuosi la propria incapacità di ridurre spese e debito. Per giunta, è proprio dal Pnrr che viene una spinta fortissima allo sfascio dei conti, con i debiti causati dal Recovery Plan.

I banchieri devono allora limitarsi a fare il loro mestiere, restando il più possibile lontani dalla politica. Perché quando salgono in cattedra per negare il diritto delle popolazioni a votare mostrano davvero il loro peggior volto.

da Il Giornale, 1 giugno 2022

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