Batterie, l'Europa indaga e il consumatore paga dazio

Simon Evenett e Fernando Martin (Università di San Gallo) hanno dimostrato che la Commissione sbaglia

2 Ottobre 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Ambiente e Energia Politiche pubbliche

La Ue spinge per le vetture green, ma poi non vuole i prodotti cinesi che costano meno. Il rischio è che i cittadini sopportino prezzi più alti per sussidiare l’industria di casa

L’auto elettrica è il centro della transizione energetica. Anche dal punto di vista simbolico: le batterie verranno alimentate con le fonti energetiche disponibili. L’auto elettrica, insomma, in Francia sarà un’automobile nucleare e in Germania un’auto a carbone. Ma nulla annuncia la fine dell’era delle fonti fossili come il non doversi più fermare alla pompa di benzina. Di qui l’entusiasmo con cui il Parlamento europeo ha proclamato la fine del motore a scoppio, lasciando una minoranza di realisti a negoziare giusto i tempi della sua messa al bando.
 
In quest’ambito, la transizione ha tutta una serie di problemi specifici, che sorprendentemente nel dibattito non sono entrati quasi per nulla. Il mercato dell’auto è per buona parte un mercato dell’usato, soprattutto per le fasce più povere della popolazione. La rete dei benzinai assicura possibilità di approvvigionamento pressoché costanti, ma anche occupazione. Siccome il consenso è ormai che non ci sia nulla che non possa essere sussidiato, anche queste questioni verranno risolte così. Persino lo Stato, però, dovrebbe ragionare sul fatto che se il medesimo effetto lo si può ottenere con un sussidio inferiore, non c’è motivo per spendere di più. Invece nel suo discorso sullo Stato dell’Unione Ursula von der Leyen ha preso di mira l’industria dell’automotive cinese, che è quella che per ora produce vetture elettriche a prezzo più contenuto e, potenzialmente, accessibile anche a chi non ha le risorse per comprare una Tesla. 

La tesi della Presidente della Commissione è che i produttori cinesi siano competitivi grazie a forti aiuti di Stato, che consentono di fare dumping. Al crescere delle importazioni cinesi corrisponderebbe pertanto un danno per l’industria automobilistica europea. Per questo la Commissione ha aperto un’indagine. 

La politica industriale è uno strano minestrone. Se uno guarda allo stato di salute dell’automotive europeo, la prima minaccia è la Commissione stessa. Avendo definito tempi così rapidi per la transizione e avendo mandato in soffitta l’euro7, sul quale l’industria stava lavorando, Bruxelles ha spiazzato i produttori. La domanda di veicoli elettrici è in parte il riflesso della diffusa sensibilità ambientale. Ma è anche l’esito dell’azione della Commissione stessa. Quando il consumatore sente che non verranno più vendute automobili a benzina e a gasolio, comincia a chiedersi per quanto tempo sarà consentito loro circolare. Per questo, se le sue circostanze glielo consentono, è ragionevole che compri un’auto elettrica. 

La Commissione da una parte crea la domanda di un bene, dall’altra si preoccupa che esso possa venire fornito a un prezzo più basso da produttori stranieri. Se la priorità è la transizione, la strategia che ha senso è avere più macchine elettriche possibile, al prezzo più basso possibile. Se la priorità è l’industria europea, i tempi della transizione dovrebbero essere rivisti. Rischiamo di trovarci in una specie di «mercantilismo di sussistenza», il cui unico esito sarà produrre prezzi più alti per il consumatore. Prescindendo da questioni di principio, un’indagine di questo tipo dovrebbe provare che i produttori europei sono stati danneggiati dalle importazioni. 

Che i sussidi cinesi avvantaggiano i consumatori europei, è certo. Che colpiscano i produttori europei è una congettura che va dimostrata.Checché ne pensi la Commissione, questo non è affatto ovvio. In primo luogo, l’economia non è un gioco a somma zero e le macchine non sono tutte uguali. Una macchina elettrica cinese venduta non è detto corrisponda a un’automobile europea che non viene venduta: non necessariamente il consumatore è lo stesso. Per un acquirente, la vettura elettrica è un’opzione a certe condizioni: se il prezzo è troppo elevato, la macchina «tradizionale» può diventare più attraente. 

Le persone hanno preferenze, bisogni e vincoli di bilancio diversi. In seconda battuta, la globalizzazione di oggi non è come il libero scambio dell’Ottocento: le catene di fornitura sono ramificate e complesse, che significa sia che si spostano non solo prodotti ma pure componenti, sia che la stessa impresa realizza pezzi di un manufatto in Paesi diversi. 

Simon Evenett e Fernando Martin, due studiosi dell’università di San Gallo, hanno fatto quel che la presidente della Commissione non si è peritata di fare: sono andati a vedere i flussi di import ed export del mercato dell’elettrico. La prima cosa che hanno riscontrato è che lo scambio intraeuropeo di veicoli elettrici non sembra condizionato dalle importazioni cinesi. Un quarto delle auto elettriche che si vendono in Europa sono tedesche, e l’andamento delle esportazioni tedesche è cresciuto assieme all’aumento delle importazioni cinesi. Né l’import cinese ha ridotto la quota di mercato di imprese di altri Stati membri: ha semmai ridotto le importazioni americane. 

Se è vero che le importazioni dalla Cina sono cresciute vistosamente negli ultimi anni, per metà si tratta di veicoli provenienti da Shenzhen. Dove, cioè, Tesla ha la sua terza Gigafactory. Importiamo cioè le stesse automobili, solo che Elon Musk le produce in Cina anziché in Texas.

Il commissario Dombrovskis, forse dopo aver preso atto degli stessi dati di fatto messi in fila da Evenett e Martin, ha ribadito che l’Europa non guarda in faccia nessuno e che l’indagine riguarderà anche Tesla, e persino Volvo, che hanno stabilimenti in Cina. E a questo punto il lettore perdonerà se al povero commentatore non resta che deporre la penna. Gli dei accecano quelli che vogliono perdere. 

da L’Economia del Corriere della Sera, 2 ottobre 2023

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