Giorgia Meloni ha fatto bene a ridurre prima, ed eliminare poi, lo sconto sulle accise gravanti sui carburanti per autotrazione voluto dal governo Draghi.
La riduzione di circa 25 centesimi al litro delle accise su benzina e gasolio (circa 30 centesimi se si considera anche l’Iva) ha un costo di circa un miliardo di euro al mese, in termini di mancato gettito. In questo momento, col barile attorno agli 80 dollari, non ci troviamo in una situazione di emergenza, come invece accade per energia elettrica e gas, sebbene ovviamente i prezzi alla pompa siano relativamente alti. Inoltre, dal punto di vista distributivo, lo sconto è andato in gran parte a favore degli individui a reddito medio-alto. Date le attuali condizioni del bilancio pubblico, è una spesa che non possiamo permetterci.
Preveniamo due obiezioni. La prima: tecnicamente la riduzione temporanea delle accise non costituisce una spesa, ma una minore entrata. Ai fini dei saldi contabili, però, l’effetto è il medesimo. Naturalmente, si potrebbe osservare che c’è un modo di preservare gli “sconti” senza compromettere le finanze pubbliche: tagliare le uscite. Non c’è dubbio, e da sempre l’Istituto Bruno Leoni chiede una sostanziale revisione al ribasso della spesa. Ma siamo onesti: il governo non ha alcuna intenzione di farlo e forse, quanto meno nel breve termine, non ne ha neppure la possibilità. Quindi l’unica scelta concreta è tra più tasse e più debito. Tra i due mali, preferiamo il minore.
La seconda obiezione: le accise italiane sono tra le più alte in Europa e superano ampiamente il livello che sarebbe giustificabile per riflettere i costi esterni derivanti dall’uso dell’automobile. In astratto, noi per primi riteniamo che una riduzione delle accise sarebbe desiderabile. Tuttavia, se vi fossero delle risorse disponibili per effettuare tale operazione, sarebbe ben più utile impiegarle per intervenire sulla grande anomalia italiana, che non sono le accise, ma l’imposizione sul reddito. In sintesi: gli eventuali dodici miliardi da destinare alla riduzione delle accise potrebbero essere assai meglio impiegati in un primo modulo di una riforma fiscale più ampia, per esempio sulla scorta del progetto di flat tax “25% x tutti”.
Semmai, ci sentiamo di muovere un’altra obiezione a Meloni che, riteniamo, ha perso un’opportunità per fare contemporaneamente un intervento favorevole all’ambiente e contabilmente sensato. Oggi vi è una differenza di circa 11 centesimi al litro tra le accise sulla benzina e quelle sul gasolio. Questo gap costituisce un incentivo implicito all’utilizzo del gasolio, la cui combustione emette meno CO2 ma più particolato e altri inquinanti locali. Il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica considera questo diverso trattamento alla stregua di un “sussidio ambientalmente dannoso”. La metodologia e il linguaggio sono assai discutibili ma l’osservazione di fondo è giusta, come abbiamo spiegato nel rapporto sulle spese fiscali. Il governo, dunque, dovrebbe fare un passo in più e stabilire accise comuni. In un recente studio sull’inflazione abbiamo suggerito un livello intermedio di circa 0,65 euro / litro, che implica una riduzione della tassazione sulla benzina e un leggero aumento sul gasolio ma consente una sostanziale invarianza di gettito (si veda il lavoro dell’IBL sulle politiche anti-inflazione). Se volessero fare un gesto verso il proprio elettorato, a cui d’altronde avevano promesso tagli dell’imposizione sui carburanti, la presidente Meloni e il ministro Giorgetti potrebbero spingersi oltre e spostare l’asticella al livello più basso, quello oggi in vigore per il gasolio (circa 0,62 euro / litro). Il costo per l’erario sarebbe significativo ma non enorme (circa un miliardo di euro di minore gettito). In tal modo si potrebbe chiudere una polemica che si trascina da anni e Meloni potrebbe rivendicare di aver abolito un “sussidio ambientalmente dannoso” che il governo stesso quantifica in 2,6 miliardi di euro nel 2020.
10 gennaio 2023