Benvenuti nell’era della fake tax. Pochi giorni fa, l’Agenzia delle Entrate ha annunciato le modalità d’applicazione dell’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero da persone fisiche che decidano di trasferire in Italia la propria residenza – una misura introdotta dall’ultima legge di stabilità e ispirata all’ambizione di accreditare il paese come un approdo sicuro per i grandi contribuenti internazionali: quelli, cioè, caratterizzati da una maggiore mobilità, specie di fronte ai tremori dell’Unione Europea e al disordinato arricchimento d’intere aree del pianeta. Come prevedibile, un simile trattamento di favore – si prevede un pagamento forfettario di 100 mila euro l’anno a carico del soggetto interpellante, più 25 mila euro l’anno per ogni eventuale familiare aggiuntivo – ha stimolato un vivace confronto tra chi vi riscontra un ennesimo regalo ai ricchi e chi ne afferma la necessità per riverniciare un sistema tributario tradizionalmente famelico.
Su un punto, sostenitori e oppositori si sono trovati in armonia: questi e quelli hanno pacificamente incasellato il provvedimento nella categoria della flat tax, come già aveva fatto l’Agenzia stessa – salvo poi rimuovere ogni impronta dal proprio sito – e come hanno fatto, trascinati stancamente dal flusso, anche gli organi d’informazione. Non occorre essere un luminare della scienza delle finanze, ma basterebbe sprecare venti secondi su Wikipedia, per sapere che una flat tax è un’imposta contrassegnata da un’aliquota unica; nel caso dell’imposta sostitutiva per i nuovi residenti, invece, parliamo di un prelievo predeterminato e uguale per tutti gli interessati, proprio perché indipendente dall’ammontare dell’imponibile: cioè, di un’imposta capitaria o in somma fissa – di una poll tax o di una lump sum tax, se preferite restar fedeli all’inglese.
Una così grave sciatteria lessicale inquieta, a maggior ragione se investe gli uffici deputati a sottrarci somme di cui ignorano la corretta qualificazione economico-giuridica. Tuttavia, anziché un infortunio occasionale, quest’approccio dadaista alle questioni fiscali è ormai una costante. Nei giorni precedenti alla discussione sulla flat tax che non c’è, il dibattito era stato infiammato da una proposta dell’economista d’area renziana Tommaso Nannicini, fautore di una “doppia progressività” che moduli le aliquote Irpef anche sull’asse giovane-anziano. L’idea – pur animata da intenzioni commendevoli: la disparità intergenerazionale è uno dei traumi irrisolti di questo paese – contrasta ingenuamente con il dettato costituzionale, aprendo a un diritto tributario ad personam: ma canizie e menopausa non esprimono di per sé una maggior capacità contributiva e non si vede come un trentenne e un sessantenne in identiche condizioni patrimoniali e reddituali possano apparire diversi agli occhi dell’esattore.
E, ancora risalendo, si ricorderanno le diatribe sulla natura di maggior spesa o di minor prelievo del bonus degli ottanta euro; gli spericolati, e mai sopiti, piani autarchici per la tassazione delle imprese del digitale; le grossolane mistificazioni in tema di concorrenza fiscale, che hanno portato anche osservatori autorevoli a mescolare nozioni elementari come quelli di ricavi e profitti e a riformulare ad uso del principe i concetti fondanti della tassazione internazionale. Perché di tasse (ma non “delle” tasse) si parla male e, dunque, si pensa male? Certo, l’argomento non è particolarmente appetitoso, ma non lo è neppure l’ingegneria istituzionale: eppure il recente scontro referendario ci aveva trasformati tutti in appassionati interpreti dei vizî e delle virtù del bicameralismo perfetto. Qui, se vogliamo, la posta in gioco è persino più alta: perché, mentre noi contribuenti – annebbiati da tassonomie pasticcione – mettiamo la testa sotto la sabbia, il Fisco continua indisturbato a metterci le mani in tasca.
Da Il Foglio, 15 marzo 2017