Definire e applicare il concetto di merito nel pubblico è tutt’altro che banale
Col rinnovo del contratto per il pubblico impiego, i lavoratori statali dovrebbero incassare circa 160 euro mensili in più, ma la progressione di carriera verrà sganciata dall’anzianità di servizio. Se le anticipazioni di stampa sull’avvio del negoziato verranno confermate, e se il ministro della PA, Paolo Zangrillo, manterrà il punto, avrà lasciato una buona eredità.
Gli incrementi salariali erano scontati, anche se la dinamica dei salari nel pubblico – dopo il blocco degli stipendi durato dal 2010 al 2016 – è stata tale da garantire una maggiore protezione ai lavoratori rispetto al privato. Secondo l’ultimo rapporto Aran, fatto 100 il livello dei salari nel 2015, a fine 2023 i lavoratori pubblici (non dirigenti) avevano entrate mediamente superiori dell’11,9 per cento, contro il 7,9 per cento del settore privato (e il 6,4 per cento dei servizi privati). Adesso, Zangrillo propone un significativo aumento (circa il 5,8 per cento), che consente di compensare la perdita di potere d’acquisto reale dovuta all’ultima ondata inflattiva. Va detto, come rileva sempre l’Aran, che la dinamica salariale nel pubblico tende a essere piuttosto scorrelata dall’andamento dei prezzi al consumo: con incrementi maggiori rispetto all’inflazione quando questa si attesta su livelli modesti e inferiori durante i periodi di rincari generalizzati. Sull’altro piatto della bilancia, Zangrillo mette l’abbandono dell’anzianità di servizio (che oggi pesa per il 40 per cento) tra i criteri di valutazione per gli aumenti di stipendio, mentre le valutazioni sul merito dei dipendenti dovrebbero acquisire maggiore importanza. Inoltre, Zangrillo intende ammorbidire i vincoli allo smart working (specialmente per i lavoratori con figli).
Si tratta, nel complesso, di una proposta equilibrata, con due grandi caveat. Il primo riguarda l’entità delle risorse messe a disposizione, che è significativa e che tra l’altro fa seguito a una serie di anticipi sugli aumenti già concessi (in particolare per quanto riguarda le amministrazioni centrali). Di fatto, quindi, quella leva negoziale è spuntata perché, quanto meno per il 2024, i giochi sono già in buona parte fatti. Tuttavia, poiché gli aumenti saranno strutturali, è fondamentale che il governo faccia bene i conti con la situazione del bilancio pubblico, anche perché nelle prossime settimane è inevitabile l’avvio di una procedura di infrazione per deficit. Il nostro paese ha un disavanzo circa doppio rispetto alla media europea e si avvia, nel giro di pochi anni, a essere lo Stato membro col debito più elevato rispetto al Pil, visto che nel frattempo la Grecia sta portando avanti con successo il suo piano di risanamento.
L’altro caveat è relativo alla parte potenzialmente più interessante dell’accordo, almeno nelle intenzioni di Zangrillo: lo scambio tra aumenti generosi e una revisione profonda dei criteri per gli aumenti futuri. Oggi l’anzianità di servizio è ancora determinante e fa sì che il principale elemento nella determinazione del salario dei dipendenti pubblici (a parità di inquadramento) sia il tempo speso nell’amministrazione. Questo non solo comporta che è sufficiente invecchiare per guadagnare di più, ma soprattutto si traduce in una premialità implicita per coloro che passano l’intera vita professionale nel pubblico, quando invece sarebbe opportuno avere una maggiore permeabilità tra pubblico e privato. È dunque condivisibile l’idea di abbandonare questo criterio per dare maggiore spazio al merito. Tuttavia, definire e applicare il concetto di merito nel pubblico è tutt’altro che banale. A dispetto dei numerosi tentativi, finora questi meccanismi hanno dato scarsi risultati, con premi distribuiti a pioggia e comunque di modesta entità rispetto allo stipendio base. La proposta negoziale di Zangrillo sembra buona, ma andrà poi testata nella realtà, ammesso e non concesso che sopravviva alla trattativa coi sindacati.