4 Novembre 2016
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
La decisione dell’Alta corte britannica di sottoporre la Brexit al voto delle assemblee legislative potrebbe produrre conseguenze devastanti. In effetti, i nostri sistemi politici giustificano il governo di alcuni su altri (tassazione e regolazione, innanzitutto) facendo riferimento al voto: al fatto che periodicamente la popolazione è chiamata alle urne per scegliere i propri rappresentanti. Questi ultimi in linea teorica dovrebbero essere solo i «mandatari» dei cittadini e dovrebbero agire sulla base delle preferenze e degli interessi di quanti fanno parte della comunità. Per tale motivo, coloro che credono nella democrazia devono avvertire qualcosa di aberrante nella richiesta che il Parlamento di Londra si esprima in merito a quanto, maggioritariamente, il popolo ha già deliberato.
A questo punto, entro tale situazione sempre più confusa c’è un’unica soluzione lineare: che a Londra come vuole il premier britannico Theresa May le assemblee si limitino a prendere atto della decisione espressa. Rappresentanti degni di questo nome, quale sia la loro opinione, dovrebbero tutti confermare il voto popolare. Se il loro compito è interpretare la volontà dei cittadini, questa volta non c’è dubbio si tratta di un compito assai facile. Questa unanimità difficilmente ci sarà.
Al contrario, è perfino possibile che la maggioranza anti-Brexit dei parlamentari si manifesti anche in questa circostanza, rovesciando l’esito delle urne e rivendicando quella «sovranità del Parlamento» a cui ha fatto riferimento la stessa Alta corte nella sua sentenza e che rappresenta, nei fatti, la grande ambiguità storica su cui si reggono da secoli gli Stati rappresentativi: nei quali l’elettore è libero un giorno (quando vota) e asservito al ceto politico per anni e anni. Ma se davvero i parlamentari dovessero rovesciare l’esito della consultazione del 23 giugno scorso, le istituzioni occidentali potrebbero conoscere uno sconquasso ancora superiore a quello rappresentato dall’uscita dei britannici dall’Unione.
In effetti la Brexit è stata tante cose assieme: ha espresso la volontà degli inglesi di continuare a fare da sé, ha incarnato una ribellione di fronte al dirigismo di Bruxelles, ha interpretato la crescente insofferenza verso un’immigrazione fuori controllo e anche purtroppo il desiderio di chiusure protezionistiche. Oltre a tutto questo, però, nella Brexit si è egualmente manifestata la ripulsa verso una leadership giudicata inadeguata, arrogante, lontana dai problemi della gente.
Con il voto scozzese del 2014 e con quello britannico del 2016 Londra aveva saputo dare una lezione a tutti. Anche se principalmente sulla base di calcoli politici, David Cameron decise di affrontare due questioni cruciali il rapporto tra Scozia e Regno Unito, e quello tra il Regno Unito e l’Europa dando la parola agli elettori: riconoscendo che la sua volontà e quella dei propri colleghi parlamentari era subordinata al volere del popolo.
E non c’è bisogno di credere che le maggioranze abbiano sempre ragione per ritenere che quella decisione di far votare sia stata saggia. Cancellare adesso la volontà espressa da milioni di persone, sostituendola con le preferenze di poche centinaia di politici di professione, direbbe al mondo che il potere politico ci interpella solo quando questo serve al suo stesso rafforzamento, ma è pronto a ignorare la nostra opinione se essa può «disturbare il manovratore». Sarebbe la compiuta sovversione delle logiche della rappresentanza ed è facile prevedere quanto tutto ciò darebbe forza a chi, già ora, soffia sul fuoco del risentimento e della ribellione.
Da Il Giornale, 4 novembre 2016