Il buon padre di famiglia non abita qui

Com'è possibile che il debito pubblico italiano abbia raggiunto il 150% del prodotto interno lordo?

20 Marzo 2023

La Provincia

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore e degli autori, uno stralcio dal libro “Stato essenziale società vitale. Appunti sussidiari per l’Italia che verrà” (Studium Edizioni, pp. 112, euro 13) di Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi. Pandemia, guerra, crisi energetica, inflazione e recessione: la vita politica oggi si trascina di emergenza in emergenza. A ciascuna di queste emergenze, si è risposto allargando il perimetro dello Stato. Stiamo entrando in una fase nuova, nella quale i vincoli di bilancio torneranno ad avere un peso. In questo libro, gli autori provano a offrire una prospettiva dissonante, rispetto a quella dominante negli ultimi anni. Si rivolgono in particolare ai decisori pubblici di una stagione difficile che potrebbe sollecitare il coraggio della discontinuità. Per gli autori, le politiche non hanno solo effetti finanziari, ma anche culturali. Mettono in campo, cioè, incentivi che condizionano il comportamento delle persone. Una società responsabile non può essere una società dipendente dai pubblici poteri. Il desiderio di sicurezza può trovare soddisfazione non nello Stato pesante ma in un ritrovato dinamismo della società italiana: che a sua volta non può prescindere da uno Stato diverso. Più leggero e più affidabile.

Se si apre una fase di ripensamento dell’equilibrio tra Stato e cittadino, nel nostro Paese, non si apre sotto i migliori auspici. Il debito pubblico italiano ha ormai raggiunto il 150% del prodotto interno lordo. Se l’Italia fosse una persona, questo significherebbe che dovrebbe lavorare un anno e mezzo per ripagare i suoi debiti: nell’ipotesi, altrettanto immaginifica, di poter impiegare allo scopo tutti i suoi ricavi, senza neppure usarne per comprare di che vivere.

Dietro il deficit
Perché abbiamo un debito pubblico così elevato? La risposta è semplice. Perché, nel corso degli anni, abbiamo intrapreso, come collettività, tutta una serie di spese che eccedevano le nostre entrate: le tasse che riuscivamo a raccogliere. Questo è il primo, radicale aspetto patologico del debito pubblico. La politica dovrebbe scegliere che cosa fare con risorse scarse. Queste risorse hanno un’origine particolare: si tratta dei quattrini sottratti alle famiglie, alle persone e alle imprese con la tassazione. Quella che il nostro ordinamento continua a chiamare la diligenza del buon padre di famiglia dovrebbe essere massima, in questo caso: proprio perché si tratta di risorse con le quali i cittadini avrebbero potuto fare altre cose, se fossero rimaste nelle loro tasche. Qualcuno ci avrebbe fatto delle vacanze più lunghe, qualcun altro avrebbe costruito un nuovo capannone. Tuttavia, non sempre con i soldi del contribuente (una prima grande riforma sarebbe abolire dal nostro vocabolario la truffaldina espressione “soldi pubblici”, dato che i soldi pubblici non esistono, sono soldi del contribuente) si usa la necessaria diligenza.

Soprattutto, nella seconda metà del ventesimo secolo è invalsa l’abitudine a non misurare le spese possibili sulle entrate, ma a deciderle, a prescindere. La politica col passar del tempo, e soprattutto negli ultimi anni, non ha riguardato una “scelta”: quella, senz’altro difficile, se aprire un nuovo asilo nido o costruire una strada provinciale. Per non scegliere, si è fatto ricorso al deficit: che vuol dire, poi, prendere a prestito risorse dalle generazioni future. Il deficit equivale a tasse che non vengono pagate oggi, ma domani. Questo cambiamento di prospettiva non ha riguardato solo l’Italia ma tutti i Paesi occidentali. Essi, forti di economie dinamiche e di un sistema finanziario sofisticato, si sono indebitati sempre di più, sino a giungere a livelli inimmaginabili. 

Questo fatto ha conseguenze importanti, anche per lo stesso discorso politico. Non a caso, negli anni recenti è scomparsa l’idea che questa “scelta” su come impiegare risorse scarse implicasse una scelta di visioni di fondo, di valori. Ma se non ci sono vincoli di scarsità, del resto, perché scegliere? E se non c’è bisogno di scegliere, perché tirare in ballo ispirazioni e valori di fondo? Nella migliore delle ipotesi, le politiche diventano qualcosa da ingegnerizzare, in modo che risultino coerenti con l’ordinamento, con le linee guida delle istituzioni europee, eccetera. 

Se sforano anche gli Stati Uniti 
Fa impressione pensare che per i primi 181 anni della loro esistenza, cioè dal 1789 al 1969, gli Stati Uniti hanno di fatto seguito una politica improntata al pareggio di bilancio. Ciò non significa che non si siano mai indebitati: lo hanno fatto, per esempio, durante le due guerre mondiali. Ricorrere al debito serviva per fare fronte a spese straordinarie, rientrare dei debiti era funzionale a mantenere, per lo Stato tutto, un profilo da debitore affidabile, che avrebbe di nuovo potuto bussare alla porta dei mercati in occasione di nuove circostanze straordinarie. Per dire: la presidenza Roosevelt, che oggi ricordiamo come l’antesignana di un approccio “keynesiano” alla finanza pubblica, fece un deficit significativamente maggiore di quello della precedente amministrazione Hoover solo nel 1934, nel 1936 e nel 1939. Vi era una convinzione, condivisa anche dai politici più determinati ad ampliare il perimetro del pubblico, che le spese attuali andassero fatte pagare alla generazione attuale. 

Anche il “come” (come deve essere organizzato un sistema fiscale, chi deve pagare per cosa) attiene, del resto, alla discussione politica più propriamente detta. È anzitutto per questa ragione che bisogna limitare quanto più possibile il ricorso al deficit, riportandolo nella sua giusta dimensione: quella dello strumento per spese straordinarie. Stato e politica debbono imparare a vivere all’interno di una dimensione chiara, i cui confini non possono essere allargati con qualsiasi pretesto. L’unico debito buono è un debito “basso”. Questa è la premessa a una riedizione su coordinate più solide del discorso pubblico ed è anche qualcosa che dobbiamo alle nuove generazioni: le quali sono piene di inquietudini e di insicurezze sul futuro e come unica certezza hanno che pagheranno più tasse dei loro genitori. 

Si dirà che queste sono parole contro vento. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno fatto anch’essi più deficit che mai e anche il loro debito pubblico sfiora ii 127,5% del PIL: era il 55% nel 2002, dopo 1’11 settembre; superò l’80% nel 2009, dopo la crisi finanziaria; era il 100% del PIL nel 2020. Un aumento, quindi, assolutamente tumultuoso. Ma gli Stati Uniti hanno dalla loro il dollaro, che è la valuta di riserva del mondo, e restano l’economia più dinamica del pianeta. Da noi si è invece pensato di fare della “Bidenomics” senza dollaro né economia americana. 

I sussidi presi per fronteggiare l’emergenza energetica rischiano di diventare parimenti impegni permanenti (come ripristinare le accise sulla benzina, dopo averle “sospese”). A questa situazione, che non è nuova, si somma l’inflazione. L’inflazione al 10% rappresenta uno straordinario indebolimento del potere d’acquisto, per le persone, destinata a riflettersi in modo importante sulle disponibilità dei più deboli e non solo. Rappresenta un problema particolarmente rilevante per le persone giovani: chi è nato dopo il 1980, di fatto, non ha alcun ricordo di momenti di inflazione. Pertanto, non è chiaro se e come riorienterà i propri consumi e le proprie aspettative. Rappresenta, da ultimo, un fallimento della Banca Centrale Europea, con conseguenze inevitabili di indebolimento dello stesso euro agli occhi del resto del mondo. 

Gli effetti dell’inflazione 
L’inflazione rappresenta, è bene saperlo, un vincolo per i governi. È vero che alleggerisce il peso del debito in termini reali e quindi è benvoluta dai grandi debitori: in primis, gli Stati. Ma è altrettanto vero che riduce i margini di manovra rispetto a ulteriori aumenti della spesa pubblica, che avrebbero effetti inflattivi. In particolare modo, nel caso della situazione attuale, questa inflazione è l’esito di anni di politiche monetarie lasche a cui si sommano gli aiuti straordinari dell’emergenza Covid, che hanno inondato di liquidità perlomeno tutti i Paesi ricchi. Se l’inflazione è data dal rapporto fra moneta in circolazione e beni e servizi che con essa possono essere acquistati, è evidente che immettere ancora più risorse nell’economia non può che portare a nuovi aumenti dei prezzi. Inoltre, le banche centrali cercano, comprensibilmente, di contrastare l’inflazione con un aumento dei tassi. 

Al momento in cui scriviamo, questi aumenti sono stati relativamente timidi ma più crescono i tassi d’interesse e più i contraccolpi si avvertono per un Paese a debito elevato come l’Italia: aumenti anche ridotti possono implicare una forte crescita della spesa per il servizio del debito. Questa situazione pone vincoli importanti a qualsiasi operazione di riordino del fisco. In Italia, il centrodestra ha una proposta ormai “classica”, che è quella di introdurre una aliquota “piatta”: una “flat tax”. L’unica versione strutturata di quella proposta è quella preparata dall’Istituto Bruno Leoni (uno dei due autori è parte in causa), che prevede un’aliquota del 25% e una riorganizzazione delle spese fiscali. 

In questa sede, ci preme sottolineare solo alcuni principi di carattere generale. Il problema del fisco italiano è che nel corso degli anni, com’è naturale e inevitabile, si sono stratificati interventi di tipo diverso, che generano importanti iniquità. Nel dibattito pubblico si ragiona per scaglioni dell’imposta del reddito ma ciò che conta è l’aliquota marginale: cioè a quanta parte del reddito “in più” guadagnato rispetto allo scaglione precedente si debba rinunciare se si raggiunge il successivo. L’aliquota marginale è ciò che conta se il nostro orizzonte sono la crescita e il recupero di produttività. Detto nei termini più secchi, alle persone deve “convenire” lavorare di più, se vogliamo che lavorino di più. 

Tasse che si sommano 
Così in Italia non è, a causa della miriade di interventi, bonus e incentivi sommatisi negli anni. Non discutiamo che ciascuno di questi non avesse nobili motivazioni, ma per sostenere questa o quella attività, questa o quella categoria di cittadini, si è creato un sistema nel quale non solo il cittadino ordinario, ma ormai anche il tecnico, non riesce a navigare con semplicità. La complicazione è una tassa che si somma alle altre ed è fonte di forte ingiustizia: divide i cittadini fra quelli che sanno orientarsi nel sistema e quelli che non sanno farlo, caricando, a parità di reddito, un peso assai maggiore sulle spalle dei secondi. 

Le grandi ragioni per “appiattire” l’imposta sul reddito sono appunto questa e quella della maggiore prevedibilità di una aliquota unica nel caso, sempre più frequente, di persone che hanno carriere discontinue. Una “flat tax” rende più facile alle persone pianificare la propria vita. Da queste considerazioni possono essere dedotti alcuni principi di carattere generale. Anzitutto, una simile riforma non può essere fatta in deficit, pena il contribuire a rendere ancor più periclitanti le nostre finanze pubbliche. In Italia, piaccia o meno, la Costituzione stessa, all’articolo 81, prevede l’equilibrio di bilancio, per quanto aggiustato al ciclo economico. Da quando l’articolo 81 è stato modificato, nel 2012, il Paese non si è mai neanche avvicinato all’equilibrio fra entrate e uscite. Quest’ultimo però è la prima e fondamentale misura di equità fiscale: equità, anzitutto, verso le nuove generazioni. In seconda battuta, la riforma fiscale deve avere obiettivi chiari. 

Questi sono obiettivi che travalicano i tecnicismi delle questioni tributarie. Anzitutto, deve essere una riforma che semplifica il rapporto fra cittadino ed erario. Le imposte per essere pagate devono essere anzitutto pagabili, e per essere pagabili debbono essere anzitutto comprensibili. Deve essere poi una riforma che vede nel cittadino-contribuente non un ingranaggio della macchina pubblica ma un titolare di diritti. Il cittadino-contribuente non può essere considerato colpevole fino a prova contraria. Esiste una norma, lo Statuto del Contribuente, che è un modello di chiarezza, nella definizione dei diritti del contribuente: anzitutto, quello a essere informato e consapevole delle leggi tributarie e degli atti che eventualmente lo riguardino. In quest’epoca di proliferazione di “diritti”, i diritti del contribuente sono gli unici che non interessano a nessuno. Attenersi allo Statuto sarebbe, di per sé, un’autentica rivoluzione. 

Nel momento in cui si riaffaccia nel dibattito pubblico l’ipotesi di una riforma costituzionale, occorrerebbe considerare la possibilità di costituzionalizzare alcuni principi contenuti nello Statuto e ripetutamente violati (a partire da quello secondo il quale ogni modifica fiscale può avere effetti a partire dall’anno successivo a quello in cui viene approvata). Deve trattarsi inoltre di una riforma fiscale “organica”, non riducibile a singole iniziative per quanto astrattamente commendevoli. La complicazione normativa e tributaria è tale che ogni intervento disorganico è un’altra goccia che fa traboccare il vaso. 

Una riforma neutrale 
Da ultimo, la riforma deve risultare “neutrale” rispetto alle attività dei cittadini. Troppe volte in passato abbiamo usato la politica fiscale per indirizzare l’attività delle imprese o per spingere le famiglie a intraprendere una certa spesa anziché un’altra. Ciascuna di queste iniziative, sommandosi alle altre, ha prodotto l’attuale complicazione fiscale. Inoltre, tutte queste iniziative erano e sono costruite sull’idea che sia lo Stato che deve dire ai cittadini come comportarsi, nei loro affari economici. Questo assunto va scardinato. In assenza di risorse che consentano una riforma organica, per dare ossigeno all’economia è meglio eventualmente procedere con tagli alle imposte che siano, essi almeno, “fiat”: una certa percentuale per tutti. Smetterla, dunque, di utilizzare il fisco come strumento per una pianificazione economica surrettizia. 

Infine, nel momento in cui si mette mano a una riforma del fisco, essa va inserita in un quadro complessivo di ritorno alla crescita economica. Per questo, bisogna ragionare sulle aliquote marginali e mirare a un fisco che incentivi la produttività. Ne è esempio la proposta di una tassazione “secca” al 5% di tutte le componenti variabili del reddito da lavoro dipendente: premi per incrementi di produttività, professionalità, indennità per scomodità da straordinario, lavoro notturno, prefestivo e festivo. Oggi se lavori di più e meglio sei penalizzato dalle modalità di prelievo. Se vogliamo tornare a crescere, dobbiamo invece evitare di penalizzare chi ha voglia di fare di più, anche sotto il profilo fiscale. Lo Stato essenziale passa dunque per una “semplificazione” del sistema fiscale e per il riconoscimento dei “diritti” del contribuente. Richiede disciplina di bilancio, per ricostruire le fondamenta del discorso politico: scelta fra valori e visioni concorrenti, non mera “ingegnerizzazione” di nuove iniziative di spesa. Ci meritiamo uno Stato che non sia più né mero gabelliere né impenitente biscazziere. 

da La Provincia, 19 marzo 2023

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