Buona scuola, un rischio per il non profit

Gli istituti scolastici fra i potenziali beneficiari del 5 per mille

7 Aprile 2015

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

II governo Renzi guarda con attenzione al mondo del non profit e per questo si è più volte speso per la stabilizzazione del 5 per mille. Ora, però, con la «buona scuola», parla di inserire anche gli istituti scolastici fra i potenziali beneficiari: una misura che potrebbe cannibalizzare le risorse per il cosiddetto «terzo settore», a meno di non ampliare la torta. Quanto sia importante per il non profit, il 5 per mille, è presto detto. Pensate al bombardamento gentile cui siamo sottoposti in questi giorni. Con grandi campagne stampa o, più di frequente, tramite e-mail e social network, associazioni e fondazioni sono impegnate in un raro momento di comunicazione «all’americana»: escono dal seminato e provano a parlare alla società italiana.

L’Italia è un Paese ricchissimo di non profit, che tuttavia restano povere. La propensione a donare degli italiani è modesta: tant’è che in questi giorni le onlus non chiedono contributi, ma di devolvere loro una quota delle nostre tasse, il 5 per mille per l’appunto.

Nel 2012, circa tre milioni di persone hanno indicato un destinatario per il loro 5 per mille. I beneficiari potenziali erano invece quasi 50 mila: 9 mila hanno ottenuto un contributo inferiore aí 500 euro, mentre 200 enti contano per il 40% delle preferenze. Una certa tendenza alla concentrazione è inevitabile: vuol dire che alcuni non profit sono riusciti ad accreditarsi quali realtà credibili e meritorie innanzi al grande pubblico. Esattamente come per i ristoranti, i supermercati e i dottori, anche nel privato sociale la reputazione è tutto.

Dal punto di vista delle organizzazioni beneficiarie, il 5 per mille è un canale di finanziamento prezioso. E’ vero: l’Agenzia delle entrate fa i suoi bonifici con due anni di ritardo, che è di più della speranza di vita di tante associazioni. Ma la devoluzione del 5 per mille è un modo semplice e indolore per chiedere un gesto d’attenzione. E’ per questo che le campagne di comunicazione, «all’americana», si moltiplicano.

Negli Usa, c’è un legame chiaro fra chi dona e chi riceve un contributo. Le donazioni hanno nome e cognome, e chi di donazioni vive sa che deve tener vivo l’interesse e l’attenzione di quanti lo sostengono. Ciò significa dover dimostrare, anno dopo anno, che quei contributi sono stati usati bene, in coerenza con gli obiettivi dichiarati.

Al contrario, il 5 per mille non stabilisce alcuna relazione fra chi spende e chi paga. Il primo ignora chi siano i suoi patròn. Il secondo non fa la fatica di firmare un assegno: anzi, non rinuncia a nulla cui non abbia già rinunciato. Il buon samaritano si priva generosamente di un mantello che gli è già stato sottratto.

Lo sappiamo, in America la tasse sono assai più basse e gli incentivi fiscali molto maggiori. Non è escluso che se anche gli italiani pagassero meno imposte, forse si farebbero più volentieri carico di questa o quella buona causa. Se lo facessero in prima persona, potrebbero essere più esigenti al pari dei cittadini statunitensi circa la qualità dei servizi offerti. Solo che in Italia è più probabile che caschi la torre di Pisa, di una riduzione della pressione fiscale.

L’ingranaggio del 5 per mille rischia d’incepparsi, se con la «buona scuola» la platea di beneficiari s’allarga ulteriormente. Sarebbe utile chiarirsi le idee. Il 5 per mille serve per finanziare il non profit o il settore pubblico? Già oggi può essere destinato al Comune di residenza, e non si capisce bene perché, dal momento che í Comuni non sono associazioni di volontariato. Per quanti vogliono impiegarlo a vantaggio dei beni culturali, invece non è ammessa la scelta del beneficiario: tocca fidarsi del ministero. Insomma, ad enti liberamente scelti dal contribuente, se ne affiancano altri che ciascuno di noi deve già finanziare, lo voglia oppure no.

Se il 5 per mille è nato per rendere più consapevoli i cittadini del ruolo del non profit, certamente questa confusione non aiuta.

Non si tratta dello strumento perfetto per aiutare il «privato sociale»: meglio sarebbero donazioni libere e volontarie.
E tuttavia, dal punto di vista del contribuente, è una delle poche forme di «democrazia fiscale», per usare un’espressione della Corte dei Conti, a nostra disposizione. E’ l’unico caso in cui lo Stato ci chiede che cosa vogliamo si faccia, dei nostri soldi.

Da La Stampa, 7 aprile 2015
Twitter: @amingardi

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