Buono scuola, non privilegi

Le scuole cattoliche dovrebbero pagare l'Imu?

27 Luglio 2015

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

La recente decisione della Corte di Cassazione dovrebbe costringerci a discutere in modo serio della libertà di educazione. A fine anni Novanta, sul tema ci fu un dibattito vero: stroncato dal classico “scambio politico”. Innanzi a un movimento, per la prima volta di una certa consistenza, che chiedeva il buono scuola – cioè uno strumento per consentire la libertà di scelta per le famiglie – il governo di allora rispose rassicurando la Conferenza Episcopale Italiana su agevolazioni e sussidi per una tipologia specifica di scuole private, gli istituti confessionali. Il dibattito si spense repentinamente, le scuole cattoliche divennero “paritarie” e di buono scuola in Italia non si parlò più.

I tanti che in questi giorni si trincerano dietro l’articolo 33 della Costituzione (laddove dice che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”) pensano che l’educazione possa essere garantita solo dalla scuola pubblica, aperta a tutti e teoricamente uguale per tutti, perché solo il disinteresse dello Stato garantirebbe la libertà di educazione e l’accesso ad essa.

Noi riteniamo, al contrario, che – proprio perché la libertà d’educazione è un valore fondamentale – le famiglie, pur grandemente imperfette come sono, hanno diritto a scegliere l’istruzione per i propri figli. E non riusciamo davvero a capire perché affidare a un monopolio un settore tanto importante per il futuro del Paese, da cui dipende il nostro capitale umano.

Il buono-scuola consentirebbe alle famiglie di scegliere in che istituto mandare i propri figli: scuola pubblica, scuola privata cattolica, scuola privata laica. Quest’ultima cesserebbe di essere un miraggio. Gli istituti confessionali sono gli unici che sopravvivono se si sopprime la libertà di scegliere, perché la Chiesa ha radici profonde. Ma se ci fosse concorrenza, cento fiori potrebbero sbocciare: e non sappiamo dire quali darebbero frutto.

Proposto da Milton Friedman già negli anni Sessanta, il buono scuola in Italia non ha avuto una vicenda fortunata. Dell’idea si cominciò a parlare grazie al Crea, un istituto di ricerca diretto negli anni Ottanta da Antonio Martino. La suggestione del “buono scuola” venne fatta propria per una breve stagione dai socialisti, e segnatamente da Claudio Martelli, per questa ragione avversati dai santoni dell’intellighenzia laica. I suoi trascorsi più recenti sono noti.

Il buono scuola risolverebbe l’anomalia della “scuola pagata due volte” da quei genitori che, con le tasse, sostengono la scuola di Stato e mandano i figli a quella privata.
Un effetto importante specie per le famiglie che hanno meno possibilità.
Il buono scuola ingenererebbe un’attitudine a “scegliere” la scuola per i propri figli, che oggi hanno solo le famiglie dei ceti più agiati.

Neanche in un sistema integralmente pubblicistico le scuole sono tutte uguali: le scuole in centro non sono quelle in periferia, ve ne sono con insegnanti più bravi e con insegnanti meno bravi. La diversità non è un peccato: è lo stato naturale delle cose. Bisogna incentivare la diversità, e usare la concorrenza per produrre qualità. Ma perché questo avvenga, bisogna rivendicare, a voce alta, la libertà di scelta. Non continuare a pietire privilegi.

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