1 Novembre 2021
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Politiche pubbliche
L’accordo era nell’aria ed è arrivato. I responsabili dei maggiori venti Paesi hanno dato il loro appoggio all’accordo sulla cosiddetta «minimum tax», che nell’arco di due anni impone di tassare le multinazionali con un’aliquota minima del 15%, obbligando a versare le imposte dove si opera.
Gli Stati Uniti sono soddisfatti perché le loro imprese avranno molto meno interesse a delocalizzare, e quindi riporteranno in patria molte attività; gli altri Paesi, egualmente, sperano di poter trarre un qualche beneficio, potendo spremere colossi come Amazon e Facebook per gli utili che realizzano nel mondo. Nell’insieme s’ipotizza che questo potrebbe comportare maggiori entrate complessive, per l’insieme degli Stati, dell’ordine di oltre 120 miliardi di euro. Nel mirino, ovviamente, vi sono i cosiddetti «paradisi fiscali», ossia quei Paesi dall’Irlanda all’Olanda, al Lussemburgo che adottano aliquote di favore e, in tal modo, risultano attrattivi per quelle realtà che sono ovviamente orientate a ridurre i costi e, in tal modo, essere particolarmente competitive.
La decisione dei principali Paesi europei di accettare la «minimum tax» è comprensibile. Per Francia e Italia, ma non solo, la concorrenza proveniente da realtà che tassano assai meno è difficile da fronteggiare. Certamente esse potrebbero imitare i sistemi fiscali meno esosi, ma questo esigerebbe una revisione dei propri bilanci (tagli di uscite e sprechi) che non sono in grado di fare. In questo modo, la scelta della «minimum tax» soddisfa sia le aspirazioni protezioniste degli Stati Uniti, da questo punto di vista poco cambiati nel passaggio da Donald Trump a Joe Biden, sia il conservatorismo di quei Paesi europei che non hanno alcuna intenzione di limitare il peso dello Stato sull’economia.
C’è poi un’altra questione, ancor più importante. Quello che molti governanti delle grandi potenze hanno in mente, soprattutto nel Vecchio Continente, è un processo di armonizzazione dall’alto che, a detta di molti, è giudicato necessario per poter avere una vera concorrenza tra imprese. La tesi è che le aziende italiane o francesi, sottoposte a un regime fiscale pesante, non sarebbe in grado di competere con quelle irlandesi, svizzere o britanniche, che devono consegnare una parte minore dei loro profitti all’erario. Che fare, allora? Dirigersi verso una tassazione uniforme è presentata come una soluzione equa ed efficiente.
Il guaio sta nel fatto che, purtroppo, nessuno pensa di estendere le norme irlandesi all’intero continente, ma semmai si vuole piuttosto gravare ogni impresa degli stessi oneri che devono versare le società francesi o italiane. Invece che scommettere sulla concorrenza fiscale tra ordinamenti, si punta insomma a uniformare in peggio tutte le legislazioni tributarie.
Il primo effetto di questa decisione consisterà nel danneggiare alcune delle aziende più dinamiche, con conseguenze che pagheremo tutti noi. Ma la seconda conseguenza è ancor più rilevante, dato che l’economia globale ha bisogno di competizione a ogni livello e, in particolare, è necessario che i Paesi più statalisti cambino rotta. Da questo punto di vista, la «minimum tax» va esattamente nella direzione opposta.
da Il Giornale, 31 ottobre 2021