Non ci sarà una maggiore flessibilità, ma una maggiore discrezionalità: aumenterà lo spazio di interferenza della Commissione Ue nelle scelte del singolo paese membro, conseguente al negoziato fra la Commissione stessa ed il paese sulle modalità di contenimento del debito pubblico». Così Nicola Rossi, economista dell’Università di Tor Vergata, analista dell’Istituto Bruno Leoni, ex parlamentare Pd, sulla proposta di riforma del Patto di stabilità annunciata dal commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni. E avverte: «Non ce ne rendiamo conto ma camminiamo su un filo», quello del debito pubblico, «e la prudenza del Governo, da questo punto di vista, è tanto giustificata quanto apprezzabile».
Domanda. La Commissione Ue ha formalizzato la proposta di revisione del Patto di stabilità, dopo la sospensione degli anni della pandemia: ritorna l’incubo del taglio del debito?
Risposta. Per la verità, la consapevolezza che un debito al 140% del prodotto rappresenta un vincolo significativo dovremmo averla noi e non dovremmo certo aspettare che sia la Commissione europea a ricordarcelo. Spendiamo, ormai, circa 70-80 miliardi di euro all’anno nel servizio del debito. Risorse che potremmo destinare diversamente. Ciò premesso, mi sembra che ancora molti dettagli della proposta non siano noti e quindi ogni valutazione oggi deve considerarsi preliminare.
D. Uno dei punti chiave è la maggiore flessibilità nel centrare gli obiettivi: chi ne avrà i benefici?
R. C’è una enorme differenza fra flessibilità e discrezionalità e non credo proprio che la proposta della Commissione presenti un grado maggiore di flessibilità rispetto alle regole oggi vigenti, e sospese. Credo, invece, che aumenti significativamente il grado di discrezionalità della Commissione. È opportuno chiarire il punto.
D. Quale?
R. Le regole attuali non impongono che i disavanzi pubblici siano pari al 3%. Stabiliscono un limite massimo. Il che significa che se – come dovrebbe essere – il bilancio pubblico fosse tendenzialmente in pareggio avremmo uno spazio pari a tre punti di prodotto per contrastare eventuali congiunture negative. Uno spazio decisamente sufficiente, salvo che in presenza di eventi catastrofici per cui è prevista la sospensione della regole stesse. In sé le regole attuali sono dunque piuttosto flessibili se non si parte dall’idea che si deve fare debito sempre e comunque.
D. E invece?
R. Viceversa, nella proposta della Commissione Ue, non è il grado di flessibilità che aumenta ma lo spazio di interferenza della Commissione nelle scelte del singolo paese membro, conseguente al negoziato fra la Commissione stessa ed il paese membro sulle modalità di contenimento del debito.
D. Una delle critiche era che il precedente patto era troppo rigido, ragionieristico.
R. È interessante notare come, a partire dall’avvio dell’Euro, nell’eurozona i disavanzi pubblici si sono attestati in media intorno al 3% e la loro dispersione intorno alla media si è considerevolmente ridotta. Quella regola – semplice e facilmente comprensibile – ha funzionato. La rigidità, come ho cercato di spiegare, non era nella regola in sè ma nella abitudine di tutti i governi di considerare come normale il fatto di fare debito sempre e comunque. Quando andava bene e quando andava meno bene.
D. Ha dunque ragione la Germania nel volere regole più chiare e stringenti?
R. La Germania ha posto un problema che io considero molto concreto. Esattamente come nel caso delle regole attuali, anche la proposta della Commissione si basa su concetti chiari in punta di teoria ma dal punto di vista pratico assai poco utilizzabili. Le regole attuali fanno grande uso di concetti come il prodotto potenziale o l’output gap. Concetti chiaramente definiti in termini astratti ma purtroppo non osservati e misurabili solo grazie ad una batteria di ipotesi che, a loro volta, sono spesso altamente opinabili, tant’è che non è difficile registrare misurazioni molto diverse dell’output gap a seconda delle metodologie adottate per la misurazione stessa.
D. E la proposta messa in campo dalla Commissione Ue?
R. La proposta della Commissione ripete l’errore basandosi su quella che tecnicamente si chiama analisi stocastica, cioè probabilistica, della sostenibilità del debito che, ancora una volta, è chiaro cosa sia in teoria ma che può produrre risultati molto diversi in dipendenza delle ipotesi e delle metodologie adottate.
D. Cosa potrebbe accadere in concreto?
R. È facile prevedere che ogni paese membro avrà la sua analisi stocastica di sostenibilità del debito da contrapporre a quella della Commissione. Ed è facile prevedere che ne scaturirà un negoziato che inevitabilmente farà sì che, nella sostanza, le regole e la loro applicazione non saranno uniformi, l’opposto del processo di unificazione europea. Su questo punto la Germania ha ragione da vendere.
D. Altro elemento è il maggiore spazio temporale in cui raggiungere gli obiettivi, fino a 7 anni.
R. Che ogni paese si dia da quattro a sette anni per mettere in campo le azioni necessarie per raggiungere l’obbiettivo in termini di debito pubblico è ragionevole. Ma il problema nasce dal fatto che le azioni stesse verranno definite da ogni paese membro d’intesa con la Commissione e, pressoché inevitabilmente, finiranno per riguardare più di una legislatura. Su cosa verteranno le elezioni se la politica economica sarà stata definita nei dettagli dal governo uscente anche per conto del governo entrante?
D. I governi successivi dunque verrebbero condizionati nella politica economica interna?
R. È un problema di democrazia: la Commissione non è eletta e dunque non risponde per le sue scelte ma i singoli governi nazionali lo sono. Come potranno rispondere per le loro scelte se i governi che verranno dopo di loro saranno costretti a seguire le stesse linee di politica economica? Si rende conto la Commissione che di questo passo gli europei si domanderanno perché andare a votare? E vorrei essere chiaro: io penso che l’Unione Europea debba compiere passi decisi verso l’unione politica e che la Commissione debba rispondere ai cittadini europei. Ma quel che si immagina di fare è qualcosa di molto diverso e, a mio modo di vedere, di molto pericoloso.
D. Non si sta replicando il meccanismo dei finanziamenti PNRR, con tutti i problemi che si stanno riscontrando per esempio sugli asili nido dove anche far slittare una scadenza intermedia sull’aggiudicazione degli appalti da parte dei comuni è motivo di tensione tra il governo e la Commissione?
R. La logica è esattamente la stessa del PNRR: un accordo fra Commissione e lo stato singolo che entra anche nei dettagli delle riforme da realizzare perché il debito pubblico sia tenuto sotto controllo.
D. Ma una riforma così concepita chi avvantaggia?
R. La Commissione europea, forse. Perché la maggiore discrezionalità della Commissione potrebbe rivelarsi un boomerang. Che si ritorcerebbe contro l’intero disegno europeo. Ovviamente spero di sbagliare.
D. Non si prospetta per l’Italia anche il rischio di tornare a ballare sui mercati finanziari?
R. La proposta della Commissione colloca l’Italia – con la Grecia e, marginalmente, la Francia – nel novero dei paesi maggiormente sotto osservazione. Basterebbe questo per sollecitare l’attenzione dei mercati. Ma, sia chiaro, la posizione dell’Italia è delicata da tempo e i mercati se ne sarebbero accorti comunque. Anche se ci fossimo limitati a ritornare alle vecchie regole. Mi permette una piccola digressione storica?
D. Prego.
R. Agostino Magliani fu, fra il 1878 ed il 1888, ministro del Tesoro del Regno d’Italia. Il suo nome è legato il concetto di «finanza allegra»: l’idea di una politica di bilancio capace di associare uscite certe e crescenti ad entrate aleatorie se non avventurose. Mutuando un termine ormai entrato nel gergo calcistico – la «zona Cesarini» – potremmo anche parlare di «zona Magliani» per indicare l’area entro la quale shock avversi in grado di influire sulla entità dello sforzo fiscale hanno una probabilità relativamente alta di portare il debito pubblico oltre le soglie della insostenibilità, innescando così dinamiche potenzialmente incontrollabili. Un’area nella quale l’Italia pericolosamente si trovò nella seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento. Ecco, in quella zona l’Italia ci è rientrata in misura ancora più acuta nella seconda metà degli anni Dieci di questo secolo. E se ne è forse allontanata in tempi molto recenti ma meno di quanto non si creda. Non ce ne rendiamo conto ma camminiamo su un filo. E la prudenza del Governo, da questo punto di vista, è tanto giustificata quanto apprezzabile.
D. Ci sono investimenti che non dovrebbero essere calcolati ai fini del debito?
R. Temo che questa sia un dibattito giustamente morto sul nascere. Se in Italia comprensibilmente dibattiamo sulla opportunità o meno di spendere tutte le risorse del PNRR, come possiamo poi immaginare che quegli stessi investimenti possano non ricadere nel campo di applicazione delle nuove regole? Come se fossero produttivi per definizione.
da Italia Oggi, 28 aprile 2023