18 Maggio 2022
Il Foglio
Nicola Iannello
Fellow, Istituto Bruno Leoni
Argomenti / Teoria e scienze sociali
La modernità è impensabile senza il capitalismo. Se accettiamo la lezione di Jean Baechler, il mondo in cui viviamo è frutto di un “grappolo di mutamenti” che hanno prodotto la nostra uscita dalla società feudale, o agricola, o tradizionale, o premoderna, appunto. Accanto alla secolarizzazione, alla democratizzazione del potere, alla nascita della scienza e al rilievo etico dell’individuo, il capitalismo e il suo principale portato – l’industrializzazione – rappresentano il versante economico del processo di modernizzazione partito dall’Europa occidentale.
Spetta alla genialità di alcuni pensatori aver compreso che il volto delle nostre società stava cambiando per sempre. Il conte di Saint-Simon ha intravvisto il momento di passaggio dalla società militare a quella industriale, in un’epoca in cui la Francia di industrie non ne aveva poi molte. Una distinzione, quella dell’aristocratico francese, destinata a essere ripresa decenni dopo da Herbert Spencer. E il senso di transizione da un’epoca a un’altra è presente in una serie di altre dicotomie introdotte da pensatori diversi come Émile Durkheim, che distingue solidarietà meccanica e solidarietà organica, Ferdinand Tönnies, che divide comunità e società, Henry Sumner Maine, che separa lo status dal contratto. Il senso della cesura è netto. Esiste una società precapitalistica e una capitalistica.
Nonostante negli studi l’origine del termine capitalismo venga attribuita a Karl Marx, è stato Werner Sombart il primo a usarlo in modo coerente. Il filosofo di Treviri impiega soprattutto la formula “sistema capitalistico di produzione” e intitola il suo opus magnum al “soggetto” impersonale che domina questo tipo di società: il capitale. Con gli studi di Max Weber, il capitalismo viene inquadrato nel processo di razionalizzazione della vita, tipico della modernità. Le scienze sociali formano un canone interpretativo in cui il capitalismo viene visto come quel sistema economico-sociale basato sulla proprietà privata, l’impresa come luogo del calcolo economico, il lavoro libero, il mercato e la produzione di massa in vista del profitto.
A cento anni dalla pubblicazione di “Das Kapital”, una pensatrice come Ayn Rand sente il bisogno di definire il capitalismo un ideale sconosciuto. Cosa è accaduto tra l’uscita del Primo libro dell’opera di Marx e la raccolta in volumi di una serie di articoli dell’autrice russa di nascita e americana di elezione?
Nel secolo che corre tra la prima messa in stato d’accusa sistematica del capitalismo e una delle sue difese più appassionate, il mondo ha conosciuto una trasformazione il cui unico precedente può essere fatto risalire alla Rivoluzione neolitica.
La Rivoluzione industriale – il biglietto da visita del capitalismo – ha cambiato il volto del pianeta nel giro di un paio di secoli, ma forse anche meno, mentre il passaggio dalla caccia e raccolta all’agricoltura ha impiegato millenni per affermarsi. Basterebbe questa osservazione di carattere temporale per dare un’idea dell’impatto avuto dall’avvento del capitalismo, anche alla luce del fatto che – proprio come la Rivoluzione neolitica – quella industriale ha una vocazione planetaria, peraltro già intuita dal Marx del Manifesto. La nostra specie non aveva mai assistito a una trasformazione altrettanto rapida e tumultuosa. Comprensibile come tale tempesta abbia provocato smarrimento, timore e anche avversione.
L’affermarsi della fabbrica – secondo Baechler, la vera novità introdotta dal capitalismo – produce l’urbanizzazione delle masse contadine e la formazione del proletariato operaio. Di fronte a questo spettacolo che deve essere apparso sconvolgente ai contemporanei, non sono mancate le idealizzazioni di un passato idilliaco da contrapporre alle dure condizioni di vita dei primi opifici. L’aristocratico Alexis de Tocqueville scrive di aver visto l’inferno a Manchester.
La critica al capitalismo prende la forma più esplicita nella nascita del socialismo e del movimento operaio, giungendo ad auspicare l’abbattimento del sistema economico borghese. A ben pensarci, il comunismo di Marx è non-capitalismo: abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, soppressione della divisione del lavoro, superamento del lavoro salariato.
Strano destino quello del capitalismo, accusato prima di immiserire le masse, sprofondandole in un’esistenza di privazioni inumane; poi di stordirle con una cornucopia di beni perlopiù inutili. Come l’anticapitalismo abbia potuto passare disinvoltamente dalla teoria della miseria crescente alla critica al consumismo resta un mistero. O forse questo paradosso si può comprendere ricordando la centralità del produttore per i pensatori socialisti; esempio paradigmatico di questo approccio è Marx, che con la teoria del valore-lavoro colloca l’operaio al centro dell’economia in quanto possessore dell’unica sostanza valorizzante: la forza lavoro.
C’è voluta la rivoluzione copernicana del marginalismo, soprattutto nella versione della Scuola austriaca, per collocare al centro dell’universo economico il consumatore con le sue scelte che indirizzano il processo produttivo. A questo proposito, per sgombrare il campo da equivoci, Rand nel primo capitolo del libro definisce il valore di mercato di un bene come valore socialmente oggettivo, nel senso di somma dei giudizi individuali: nessun contrasto con il soggettivismo degli economisti austriaci (la filosofa dell’oggettivismo riconosceva la grandezza di Ludwig von Mises).
In armonia con la sua concezione eroica dell’uomo, nel discorso di Rand emerge l’importanza degli imprenditori, la forza trainante del capitalismo, con le loro capacità innovative. Nella saggistica, la pensatrice di origine russa riversa quel culto dell’individuo indipendente che permea la sua produzione narrativa. I businessmen esaltati nel libro sono la versione incarnata di Kira Argunova, Uguaglianza 7-2521, Howard Roark e soprattutto John Galt, i protagonisti di “Noi vivi”, “Antifona”, “La fonte meravigliosa” e “La rivolta di Atlante”.
Nato come sostanza del romanticismo professato nell’estetica da Rand, l’oggettivismo si dispiega come filosofia “sistematica” che partendo dalla metafisica – la realtà esiste – giunge ad abbracciare le scienze sociali come la politica e l’economia, per definire quell’egoismo razionale che costituisce il concetto cardine della concezione randiana dell’uomo. Come afferma l’architetto Roark nell’arringa difensiva al processo che lo vede accusato di aver distrutto un complesso residenziale in quanto stravolgimento di un suo progetto, “non riconosco il diritto di nessuna persona su un singolo minuto della mia vita, né su una sola particella della mia energia. Io desidero dichiarare che sono un uomo che non esiste per gli altri. […] Non riconosco alcun obbligo verso gli uomini tranne uno: rispettare le loro libertà e non prender parte a una società di schiavi”.
E veniamo quindi a ciò che costituisce un ideale sconosciuto secondo Ayn Rand. Nata nel 1905 a San Pietroburgo, Alisa Rosenbaum assiste da ragazza al primo tentativo di realizzare nella pratica gli ideali del comunismo. Il suo amore per la libertà la spinge a fuggire ventunenne negli Stati Uniti, dove arriva nel 1926 convinta di essere giunta finalmente nella “land of the free”. Diventa celebre come autrice di romanzi, decidendo poi di rendere esplicita la propria filosofia in opere non narrative. Nel 1966 dà alle stampe una raccolta di saggi (alcuni per la penna di Nathaniel Branden, Alan Greenspan e Robert Hessen) intitolata “Capitalism: The Unknown Ideal”. In quei quarant’anni, qualcosa l’ha convinta che il sistema della libera impresa e dell’economia di mercato non fosse più (se mai lo era stato) il fiore all’occhiello della società americana. Gli Stati Uniti e tutto l’occidente hanno imboccato quella che è stata definita “terza via” tra il capitalismo “selvaggio” e il socialismo reale e realizzato.
Quello randiano è un ideale e anche un tipo ideale nel senso weberiano del termine: non solo un obiettivo da perseguire con passione e difendere con razionalità, ma altresì un concetto distillato in purezza per confrontarlo con la realtà. E la realtà del suo tempo, a giudizio di Rand, era quella dell’economia mista, caratterizzata dall’intervento dello Stato. La Grande depressione e la Seconda Guerra Mondiale avevano portato a un’espansione della mano pubblica senza precedenti nella politica e nell’economia degli Stati Uniti. Rand rintraccia antecedenti di questo processo nella legislazione antitrust e nella corruttela dei politici all’epoca delle prime grandi ferrovie.
Talmente centrale è il capitalismo nel pensiero randiano che la pensatrice amava definirsi una “radical for capitalism”. Da un punto di vista politico, la filosofa dell’oggettivismo sostiene che l’unico ruolo dello Stato o governo in una società libera sia quello di provvedere alla difesa nazionale, all’ordine interno e all’amministrazione della giustizia, i compiti classici dello Stato liberale; si badi bene, un ruolo da interpretare al netto dell’imposizione fiscale, in quanto ritenuta inizio di aggressione nei confronti degli individui.
Come spiega in “La virtù dell’egoismo”, il finanziamento del governo può avvenire in modo legittimo solamente su base volontaria; uno strumento efficace sarebbe quello di “assicurare” i contratti (e in una società libera il numero delle transazioni private è elevatissimo) presso i tribunali pubblici: dietro il pagamento di una polizza, i contraenti vedrebbero risolte eventuali controversie dall’amministrazione della giustizia.
Per il resto, provvede il capitalismo ideale. Difese le frontiere, garantito l’ordine interno, assicurati la punizione dei criminali e il rispetto dei contratti, la libertà di azione degli individui – mediata dalla divisione del lavoro e dallo scambio – saprà produrre i beni e i servizi di cui i consumatori hanno bisogno.
Al lettore italiano viene presentata una scelta dei saggi raccolti nella seconda edizione del 1967 di “Capitalism”. Desta interesse tra gli autori la presenza di Alan Greenspan, che faceva parte del circolo più ristretto degli adepti di Rand. Nel 1974, alla cerimonia del suo giuramento come membro del Council of Economic Advisers, Greenspan si fa fotografare col presidente Gerald Ford accompagnato da Rand. Presidente della Federal Reserve per cinque mandati dal 1987 al 2006, Greenspan si è trovato al centro delle critiche avanzate da opposti schieramenti. I democratici gli hanno rimproverato la sua fede “ideologica” nei meccanismi spontanei del libero mercato, i randiani lo hanno accusato di aver tradito la purezza dell’ideale conducendo una politica monetaria lontana dai suoi convincimenti fondati sul gold standard. L’interessato si è difeso sostenendo che il suo ruolo gli imponeva dei compromessi. E dire che uno dei saggi qui presentati si intitola “Anatomia del compromesso”.
Il capitalismo resta tuttora un ideale sconosciuto, a quasi sessant’anni dalla pubblicazione di questo libro? Sconosciuto nel senso di ignoto, probabilmente no. Nel senso di travisato, frainteso, caricaturizzato, può darsi di sì. Per molti, il comunismo non è più la cura, ma il capitalismo resta la malattia. Passato di moda quello no global, altri movimenti hanno messo sul banco degli imputati il sistema economico tipico della modernità, accusandolo di ogni nefandezza. Nell’enciclica Laudato si’, Papa Francesco giunge ad auspicare una certa decrescita. Immaginare di godere dei vantaggi della modernità facendo a meno del capitalismo resta un’illusione che non possiamo permetterci.
“Capitalismo: l’ideale sconosciuto” (216 pp., 22 euro) è il libro di Ayn Rand che Liberilibri, in collaborazione con l’Istituto Bruno Leoni, ha tradotto in italiano a quasi sessant’anni dalla sua nascita. Tradotto da Nicola Iannello, include anche alcuni scritti di Alan Greenspan e Robert Hessen.
da Il Foglio, 18 maggio 2022