Il capitalismo "woke" rischia di sedare gli utili

La spinta ad occuparsi di diritti civili potrebbe essere un boomerang per manager e azionisti

27 Febbraio 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali

La separazione tra economia e politica, in una società aperta, dovrebbe essere tanto importante quanto quella fra Stato e chiesa. Il «capitalismo reale» è però una storia di sconfinamenti, del pubblico nel privato ma anche del privato nel pubblico. Negli Stati Uniti, in passato molte polemiche si sono concentrate su quei magnati (come George Soros o Charles Koch) che usano le proprie fondazioni per sostenere un’opinione pubblica affine alle proprie convinzioni.

Il caso del woke capitalism (capitalismo risvegliato ndr) è diverso. Il movimento «consapevole», tutto incentrato su un’ideologia che fa dell’appartenenza razziale o identitaria il metro su cui giudicare ogni individuo e sulla necessità di prassi compensative delle colpe occidentali del passato, ha trovato rapidamente sponda in grandi imprese quotate. Esse ormai non si limitano a valorizzare la diversità ma mettono in atto forme più o meno velate di censura dei loro stessi lavoratori, spingendo inoltre sugli stessi valori nella loro promozione verso l’esterno, a cominciare dalla pubblicità. Potrebbe essere semplicemente una strategia di marketing: mostrarsi allineati alle nuove sensibilità può compiacere i consumatori. In uno studio recente, Nicolai J. Foss (Copenhagen Business School) e Peter Klein (Baylor University) sottolineano però che l’avvicinamento alla causa woke sia arrivato a una velocità insolita. Foss e Klein sottolineano la differenza fra woke e «azioni affermative» tradizionali, cioè come l’obiettivo non sia più quello di promuovere una forza lavoro più diversificata ma quella di cambiare il modo in cui le persone interagiscono e «smantellare il potere dei gruppi privilegiati».

Le ragioni
Ciò li porta a interrogarsi sull’estensione del woke capitalism ma anche sui meccanismi istituzionali che lo hanno così rapidamente realizzato, cambiando lessico e priorità delle imprese in, grosso modo, cinque anni. Ogni impresa inclusa nella Fortune 100 ha un programma DEI (Diversity, Equality and Inclusion): il fenomeno è veramente pervasivo. «La maggior parte delle imprese tecnologiche statunitensi ha donato milioni a charity attive sui temi della racial justice, come Black Lives Matter. Nel marzo 2022, in occasione dell’ennesimo dibattito sull’uso delle toilette e sull’accesso agli sport da parte delle persone transessuali, oltre duecento imprese (da Apple a Disney, da Citigroup a Google, da Nike a United Airline) hanno ritenuto di dover prendere posizione con una lettera aperta.

Per Foss e Klein, è interessante capire quali attori all’interno delle imprese spingano in quella direzione. L’impressione di molti è che le pressioni vengano dagli azionisti, un po’ come avviene coi fondi Esg. Ma i due studiosi ritengono che le cose siano più complesse e che anziché all’esterno delle aziende (pressione mediatica, regolazione, domande dei consumatori) sia opportuno guardare all’interno. Il middle management di solito viene riconosciuto come portatore di responsabilità organizzative, non strategiche. È l’alta dirigenza che definisce gli obiettivi. Ma, secondo Foss e Klein, i quadri possono guidare il cambiamento strategico. L’adesione alla causa woke non è un requisito dettato dalla regolazione, ma un insieme di credenze rapidamente filtrate nella cultura aziendale. Inoltre, «le imprese hanno generalmente creato uffici e dipartimenti specializzati per gestire i programmi di promozione della diversità», selezionando figure professionali ad hoc.

Le metriche
La responsabilità di tali scelte resta in capo al Ceo, ma questi – sottolineano Foss e Klein – sarà poco incline a scavalcare le indicazioni di persone a cui ha esplicitamente delegato una responsabilità. Inoltre, opportunisticamente gli amministratori delegati hanno tutto l’incentivo a seguire la corrente.

Quanto più ci si sposta da metriche di performance «dure», come la redditività o il valore di mercato, a misure più «morbide», come il contributo alla giustizia sociale in senso lato, tanto più i manager sono protetti dal giudizio del mercato e degli azionisti. Inoltre, l’adesione alla causa woke può corroborare l’immagine non solo dell’azienda, ma proprio del manager, oltre a rappresentare una sorta di assicurazione rispetto alla politica delle risorse umane: è un modo per ridurre il contenzioso con alcune categorie.

Foss e Klein spiegano bene come pratiche improntate alle più grandiose intenzioni in realtà possono affermarsi perché allineate con gli interessi di alcuni attori particolari: amministratori delegati in cerca di un posto al sole, gestori professionisti della diversità. Tali interessi non necessariamente coincidono con quelli dell’impresa, o degli azionisti.

È un po’ paradossale. Le stesse persone che un paio di generazioni fa avrebbero considerato le imprese il campo di battaglia della lotta fra capitale e lavoro, oggi ritengono che debbano essere il luogo dove si sanano conflitti sociali ancora più profondi. Così finiscono per farsi carico di questioni ben più grandi di loro, che dovrebbero riguardare la società tutta. Nel medio termine, non è detto che questo vada a vantaggio della profittabilità, e forse neanche della serenità degli uffici e degli stabilimenti.

da L’Economia del Corriere della Sera, 27 febbraio 2023

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