Cara Boldrini, inseguendo strade e nomi al femminile ci perdiamo qualcosa

Anche prendendo sul serio le battaglie di genere della Boldrini, non si può ragionevolmente credere che esse renderanno migliore la vita delle donne

20 Giugno 2016

Il Foglio

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Al direttore
Solo il 4 per cento delle vie intitolate alle donne, per giunta in gran parte sante, sarebbe l’ultima odiosa discriminazione di genere scovata da Laura Boldrini. Fa il paio con l’altra disuguaglianza che la ossessiona, la declinazione dei nomi al femminile. E è andata bene che ella è presidente della (femminile) Camera, e non del Senato. Altrimenti avremmo rischiato la proposta, accanto a ministre e presidentesse, della Senata a giorni alterni. Usando la poltrona della terza carica di stato, la presidentessa è nota per intestarsi battaglie di genere individuandone un monito istituzionale: sindaci, iniziate a dedicare vie alle donne; funzionari e politici, imparate a dire presidentessa (o presidenta, non l’ho ancora capito).

Avremo così un mondo più equo in cui la donna, tra un suffisso e una dedica, raggiungerà finalmente la stessa dignità dell’uomo emancipandosi dall’ingombranza maschile, che ha occupato vie, poltrone, nomi e piazze. Già mi sento più forte e sicura di me, nel sapere che un giorno Galileo Galilei dovrà spartirsi a un equo 50 per cento l’intestazione dei licei scientifici con Marie Curie, e Sibilla Aleramo potrà finalmente uscire dal cono d’ombra di Dino Campana nelle recite poetiche. Sarei ancora più realizzata se la Boldrini (anzi, Boldrini, perché l’avvezzo dell’articolo davanti al cognome femminile è un altro segnale di discriminazione: chiamereste mai il presidente del Senato il Grasso?) avanzasse la proposta di reintrodurre dal latino il neutro: è disdicevole che il maschio domini a tal punto il genere umano da essere usato anche per indicare il neutro.

Se vincessimo queste battaglie culturali, alcune donne potranno credere fieramente di aver raggiunto un’agognata uguaglianza. Sì, ma quale uguaglianza? Quella utile a consentire alle donne di avere le stesse opportunità di vita e realizzazione degli uomini, o quella estetica di rivendicare un mondo per metà al femminile?

Anche prendendo sul serio le battaglie di genere della Boldrini, non si può ragionevolmente credere che esse renderanno la vita delle donne più semplice di quanto sia ora. E si rassegnino, le donne, ad accettare la sorte di doversi guadagnare da sé le piccole o grandi conquiste che cercano e a chiedere allo stato e alle sue alte cariche di occuparsi per bene delle poche cose utili a rimuovere i vincoli e i limiti all’uguaglianza formale.

E’ il caso dell’attribuzione del cognome materno al proprio figlio per le donne sposate. Alla dichiarazione di nascita i figli di coppie coniugate acquistano infatti il solo cognome del padre. L’aggiunta o il cambio del cognome possono avvenire solo successivamente, previa richiesta motivata al prefetto e conseguente, eventuale “graziosa concessione” del ministero dell’interno.

Due anni fa, anche a seguito di una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge che riunisce, tra gli altri, un disegno di legge del precedente governo Letta, volta a riformare il codice civile consentendo ai genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, la libertà di attribuirgli l’uno o l’altro cognome o entrambi. La proposta è ferma da due anni in Senato.

Chissà quanti di noi, distratti dalle campagne egualitariste sulla toponomastica e la grammatica di genere, ne sono al corrente.

Da Il Foglio, 18 giugno 2016

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