20 Febbraio 2015
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Gli aiuti ai paesi in difficoltà vengono dati solo se condizionati all’accettazione di un programma di riforme: questo è il principio che il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schàuble continuerà ad affermare oggi a Bruxelles e sul quale sembra avere portato l’intero Consiglio d’Europa. Già l’ha detto ieri il suo portavoce: la lettera di Atene non presenta alcuna proposta di soluzione sostanziale. Sembra difficile che il ministro tedesco possa cedere, perché al principio di condizionalità la cancelliera Angela Merkel ha ancorato tutte le concessioni che via via ha fatto, sull’Efsm, sull’Esm, sull’Omt. Non c’è solo Syriza e le sue spericolate promesse per vincere le elezioni. C’è anche la Merkel che, oltre all’incognita Karlsruhe e alla spina nel fianco Alternative ftir Deutschland, deve fare i conti con un’opinione pubblica tedesca in questa circostanza unita come raramente.
Ma c’è un’altra ragione per attaccarsi a quel principio, e riguarda tutti i paesi dell’Unione: perché così si evita di affrontare una questione ben più sostanziale. La partecipazione all’Unione europea, e all’Eurozona, vincola in qualche modo la linea politica di governi democraticamente eletti? Il problema si è già posto con Viktor Orbàn. Prescindiamo da questioni geopolitiche, Tsipras non è Chàvez e tanto meno Castro (anche se l’ammiccamento a Putin sembrava fatto apposta per suscitare associazione di idee, e qualche appoggio oltreatlantico, puntualmente arrivato). Parliamo di posizioni politiche generali: quella di un governo di sinistra-sinistra è compatibile con un’Unione europea che si fonda sostanzialmente su principi liberali? L’Ue non è un’unione politica, ma un’unione di politiche: quanto possono divergere negli orientamenti di fondo? Basta, ad assicurarne la convergenza, il rispetto (tendenziale) dei parametri di Maastricht, garantire le libertà stabilite dai trattati, non restringere la concorrenza e non fornire aiuti di stato?
Certo che, a rompere con le regole non scritte del club, Tsipras e Varoufakis, le hanno provate tutte: arrivare con mezz’ora di ritardo alle riunioni, facendosi accompagnare da un operatore televisivo, rendere pubblici documenti con sopra scritto riservato.
Ma anche tecniche negoziali o infantili, come il greco buono e il greco cattivo, o provocatorie, come chiedere danni di guerra alla Germania, o sgradevoli, come provare ripetutamente a mettere gli uni contro gli altri. Prima la piazza finanziaria di Londra contro quella di Francoforte, poi il sud contro il nord, l’Ocse contro il Fmi, Juncker contro la Merkel, la Commissione contro il Consiglio, fino a Moscoviti contro Dijsselbloem. Conta la lettera dei trattati, conta la fiducia, non solo tra i soci di un club, anche tra debitore e creditore. Invece quella di “ingannare chi si fida” sembra essere una propensione costante dei governi greci, fin dalla falsificazione dei dati di bilancio per entrare nell’euro. Syriza, si legge sul sito di Eurointelligence, aveva raccontato che avrebbe recuperato 20 miliardi di tasse non pagate (su un totale di 76), adesso dice che quella era una stima e che l’ammontare delle tasse recuperatili è solo di 9 miliardi e che sperano di recuperarne 3 quest’anno (sul finanziamento con “contrasto all’evasione” noi italiani possiamo dare lezioni). Pare che ci sia l’inganno perfino nella dichiarazione della percentuale di richieste (85 per cento) finora soddisfatte del famoso Memorandum della Troika.
Richiedere il rispetto della lettera dell’accordo può servire agli altri membri del Consiglio per evitare di porsi domande difficili. Potrebbe far comodo anche ai greci: se è giusta l’interpretazione che qualcuno incomincia a darsi della loro tattica negoziale, cioè il tentativo di trovare a chi dare la colpa per un’uscita già messa in conto.
Da Il Foglio, 20 febbraio 2015
Twitter: @FDebenedetti