A volte si maturano idee e convinzioni ragionando in modo spregiudicato ma non si ha il coraggio di esprimerle compiutamente. Esse contrastano troppo col senso comune, con quello che viene considerato giusto credere o pensare, per non destare il sospetto o addirittura gli insulti degli spiriti gregari, che soprattutto fra gli intellettuali sono sempre la maggioranza.
Quindi ci si ritrae, in attesa di tempi migliori per parlare con qualche speranza almeno di essere ascoltati. Almeno che non ci sia qualcuno più esperto di te, e quindi con più cognizione di causa e competenza specifica, che ti aiuta a dire quello che tu avevi semplicemente intuito, nella fattispecie che la scienza economica, così come si è venuta elaborando negli ultimi sessanta anni, è una colossale bufala.
Faccio qui riferimento ad un agile ma impietoso volume scritto da una affermata economista americana che, seppur pubblicato per la prima volta ad Amsterdam nel 1996, vede ora la luce in edizione italiana: I vizi degli economisti, le virtù della borghesia, IBLLibri (pp. 138, euro 16). L’autrice (che in realtà è donna solo da una ventina di anni essendosi sottoposta a intervento chirurgico per cambiare sesso) si chiama Deirdre N. McCloskey: è docente a Chicago e a Rotterdam e ha un curriculum di tutto rispetto e una vasta e importante bibliografia. A prima vista, McCloskey sembra porsi la stessa domanda che si pongono in molti oggi dopo la crisi del 2008: perché gli economisti non sono capaci di prevedere questi choc? Perché se fanno previsioni sono tutte sbagliate? Ora, se vi aspettate che ella possa darvi una risposta ideologica del tipo di quella che dà un Premio Nobel come Paul Krugman, o un giornalista politicamente corretto come Federico Rampini, sbagliate di grosso. McCloskey non pensa affatto che la colpa sia del dogma liberista secondo cui i mercati si autoregolerebbero e l’intervento dello Stato sarebbe dannoso. Ma ugualmente fuori strada andrete, se pensate il contrario: la nostra, pur essendosi formata nell’alveo della Scuola di Chicago di Milton Friedman, ritiene che gli economisti non sbaglino a prevedere questo piuttosto che quello. Essi, più radicalmente, sbagliano sempre e comunque perché non sono in grado per principio di prevedere alcunché.
Anzi, stante gli sviluppi del secondo dopoguerra, si può dire che la scienza economica sia oggi perfettamente inutile se non fuorviante e dannosa. Il fatto è che gli economisti hanno pensato di capire la realtà economica in laboratorio: buttare uno sguardo fuori avrebbe per loro significato rendere “impura” la loro scienza.
Ma una scienza “pura”, continuamente contraddetta dalla “impurità” del reale, che valore ha? Più radicalmente, che ce ne facciamo di una “verità” che ha valore in un mondo di idee che non esiste, diciamo pure nell’iperuraniano di platonica memoria? È ancora scienza una siffatta attività? Non è un caso che gli economisti, che hanno fatto propri i “valori del dipartimento di matematica”, non riescano più a prevedere un bel nulla: le loro previsioni sono contraddette dalla realtà delle cose umane che per fortuna sono liberi e imprevedibili. McCloskey è categorica: «Oggi l’economia come materia di studio ha un grosso problema: i suoi metodi sono sbagliati e, pertanto, producono risultati sbagliati». E individua i tre principali vizi contratti dall’economista “modernista”, come lo chiama: il credere, sulla scia degli studi di Lawrence Klein, che la statistica sia non semplicemente un supporto alla comprensione ma il modo di accedere a una incontrovertibile verità; la convinzione, risalente a Paul Samuelson, che l’economia possa studiarsi “alla lavagna”, cioè porsi come una teoria astratta; l’arroganza, risalente a Jan Tinbergen, di credere che la società, e quindi le vite umane, possano essere modellate e progettate come fa un’ingegnere con le sue costruzioni.
Vista con occhio disincantato, la vasta letteratura scientifica prodotta negli ultimi anni è costituita per lo più da sofisticati “giochi sulla sabbia”, come li chiama, di nessuna utilità pratica.
O meglio, questa enorme produzione di libri a mezzo di libri, potremmo dire echeggiando la nota espressione di Piero Sraffa, chiusi per lo più in un cerchio di stretta autoreferenzialità, hanno una utilità solo per chi li scrive: tramite essi, secondo un processo che come smascherato da Richard Rorty è simile a quello realizzatosi nell’ambito della filosofia analitica o normativistica (come con brutta parola si dice) americana, gli economisti hanno costruito carriere per se stessi e si sono fatti consiglieri tanto fallimentari quanto profumatamente pagati di governi e istituzioni.
McCloskey auspica un ritorno dell’economia alle origini, quando era una “scienza della prudenza” o una sapienza pratica che si calibrava sulla realtà e aveva la capacità di autocorreggersi. Comunque sia, sarebbe importante che anche in questo caso la politica riprendesse in mano lo scettro e cominciasse a rompere quel circolo vizioso che si è creato fra esperti, accademie, amministrazione e sapere diffuso o mainstream dominante e irriflesso. Il quale non a caso, aggiungo, è per lo più di ispirazione liberal. E proprio infatti del liberal (si pensi appunto a Krugman ma anche ad altri fra gli ultimi premi Nobel, ad esempio Stiglitz) quello di delineare “ricette” di facile portata e comprensione col fine di creare, essi dicono, un “mondo migliore”.
Una vera e propria hybris pedagogica verso i singoli e i governi che sa molto di quell’aristocraticismo intellettuale che l’autrice di questo libro critica aspramente nelle sue conclusioni considerandolo un’eredità otto-novecentesca.
E che non ha nulla a che vedere non solo con la sapienza liberale, che a lei come al sottoscritto sta a cuore, ma nemmeno col genuino realismo politico della tradizione classica di sinistra.
La quale, come è noto, confidava nel cambiamento dei rapporti di forza e nel movimento generale di consapevolezza democratica della società, non certo nel cambiamento imposto per via professorale.
Da Cronache del Garantista, 24 ottobre 2014