Caro energia: la risposta non sta nei soldi a pioggia ma negli investimenti

Si esce dalla crisi solo se ciascuno Stato membro dell'Ue elimina le varie barriere agli investimenti e gli anatemi contro le risorse necessarie

22 Febbraio 2022

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Per l’ennesima volta il governo stanzia enormi risorse pubbliche per mitigare gli aumenti dei prezzi energetici. Ma, nel decreto varato venerdì, affianca a queste misure estemporanee altre di natura strutturale. Finalmente, l’esecutivo sembra aver compreso che non siamo davanti a una burrasca estiva, ma a un problema profondo che dipende dalla domanda e dall’offerta di energia. L’una è alta, grazie alla ripresa dell’attività economica; l’altra è insufficiente, a causa di una molteplicità di cause che vanno dalle campagne per il disinvestimento dalle fonti fossili alla bassa ventosità sul mare del Nord nell’ultimo trimestre del 2021 al calo della produzione nucleare francese e tedesca nelle ultime settimane.

Per quanto riguarda gli aiuti, il governo insiste nella elargizione di aiuti a 360 gradi, senza concentrare le risorse su quelle famiglie e imprese che ne hanno veramente bisogno. La parte più interessante del provvedimento è però quella che agisce dal lato dell’offerta. Per quanto riguarda le fonti rinnovabili, sono previste una serie di semplificazioni che dovrebbero accelerare la realizzazione dei nuovi impianti. Si tratta di un approccio corretto, perché – specialmente con questi prezzi – il vero ostacolo non è l’insostenibilità economica dei progetti, quanto le lungaggini amministrativi. Viene, però, da chiedersi come questo possa conciliarsi con la “tassa sugli extraprofitti” contenuta nel decreto sostegni di gennaio: proprio quando le fonti alternative sembravano emanciparsi da una lunga dipendenza dai sussidi, esse vengono falcidiate nei loro ricavi. E’ come se ci fosse una volontà punitiva verso quegli imprenditori che hanno realizzato impianti “a mercato”, e non possono quindi contare sulla rete di salvataggio degli incentivi.

Ancora più importante è la decisione di togliere alcuni degli ostacoli che da lustri hanno condannato al declino la produzione nazionale di gas. Da anni non venivano rilasciate nuove autorizzazioni. Il tema dell’upstream non è neppure citato nei principali documenti programmatici in materia di energia, come la Strategia energetica nazionale o il Piano nazionale integrato energia e clima. Adesso, finalmente si prende atto che le risorse domestiche forse non sono immense, ma possono dare un contributo a soddisfare i bisogni del paese. Si potrebbe discutere sulle modalità dell’operazione, che prevede nei fatti una sorta di obbligo di vendita del gas al Gse e, poi, la rivendita da parte di quest’ultimo ai clienti industriali attraverso contratti pluriennali. E’ una costruzione che prevede un forte ruolo di intermediazione pubblica: forse non c’era alternativa politicamente sostenibile che potesse, contemporaneamente, sopire le proteste dei partiti che si sono sempre opposti alle trivelle e garantire l’accesso al gas a prezzi contenuti alle imprese manifatturiere.

In ogni caso, dopo nove mesi di continua emergenza il governo ha accettato che qui non si tratta di passare la nottata, ma di prendere sul serio un tema che è stato troppo spesso affidato a slogan semplicistici o fughe in avanti insostenibili. Non si può pensare di cavarsela distribuendo soldi e nemmeno negando le difficoltà della transizione o gli effetti di un prolungato periodo di sotto-investimento. E a chi dice che l’Italia può dare solo un piccolo contributo a risolvere una crisi che è (almeno) europea, la risposta è semplice: ciascuno individualmente può dare un piccolo contributo, ma se ne esce solo se ciascuno Stato membro dell’Ue elimina le varie barriere agli investimenti e gli anatemi contro risorse, come il gas, necessarie oggi e domani.

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