9 Febbraio 2020
TuttoLibri – La Stampa
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
L’Europa, l’austerità, i populismi: riflessioni online di due “volontari della ragione” per le nuove generazioni
In un Paese che ama le spiegazioni semplici e autoconsolatorie, su tutte una: è sempre colpa di qualcun altro, ci vorrebbe un «volontariato della ragione».
Chi ha avuto incarichi di responsabilità, chi ha esperienze da condividere, chi ha idee maturate non nel silenzio della sua cameretta ma in un confronto accanito con la realtà, non deve perdere il gusto di intervenire, spiegare, discutere, passando alle nuove generazioni «non solo il testimone del potere ma anche il viatico morale della responsabilità collettiva».
A questa ideale classe dirigente riflessiva, Ferruccio De Bortoli e Salvatore Rossi si divertono a dare l’esempio con il loro “La ragione e il buonsenso. Conversazione patriottica sull’Italia”. È un saggio epistolare, una e-mail uno, una e-mail l’altro, nel quale il presidente di Vidas, a lungo direttore del Corriere della sera, e il presidente di TIM, già direttore generale della Banca d’Italia, nel nome, per l’appunto, del buon senso, cercano di stanare il senso comune.
I temi sono i più vari ma, su tutti, centrale è la responsabilità delle classi dirigenti per il declino, innanzi tutto culturale, del Paese. La cartina di tornasole è il rapporto con l’Europa. «Un sinodo vescovile di europeisti italiani, molti di estrazione azionista e repubblicana, hanno per anni raccontato al “popolo”, dall’alto dei loro pulpiti, che lo stare con l’Europa avrebbe corretto o compensato gli altrimenti incorreggibili vizi italici».
Il «vincolo esterno» è stato visto come qualcosa di più che un incentivo alla probità finanziaria. È diventato il leitmotiv di tutta una serie di prediche di cui «il popolo si è alla fine stufato e ribellato, consegnando il suo appoggio a forze politiche che, brutalmente o confusamente, additano l’Europa come fonte di oppressione maligna». Il guaio è che i sermoni nascondevano anche l’incapacità di intestarsi direttamente alcune scelte (il rigore di bilancio, le privatizzazioni), perché l’appello europeista funzionava come una scorciatoia, evitava il fastidio di costruire consenso.
Rossi e De Bortoli sanno benissimo che se c’è qualcosa che, da sempre, unisce le classi dirigenti italiane è una certa anti-italianità, la convinzione di essere venuti al mondo in mezzo a gente forgiata in un legno particolarmente storto. Ma in democrazia il pubblico votante non si può ignorare. Ricordando il più titolato dei vescovi europeisti, Tommaso Padoa-Schioppa, Rossi nota che «abbiamo più che mai bisogno di persone (così) intelligenti» ma aggiunge che sono pure «forse inadatte a colloquiare con la gente semplice».
Sarebbe «il compito della politica, bene intesa, fare da filtro fra competenza e azione nell’interesse della collettività». Il filtro è saltato, e proprio per questo c’è bisogno che quelle persone si assumano direttamente la responsabilità di parlare a tutti, nel modo più chiaro e semplice. De Bortoli e Rossi lo fanno da par loro, ricorrendo persino alla leggerezza dell’apologo per sbrigliare la contraddizione fra le inquietudini del presente e il dato di fatto dello straordinario miglioramento delle condizioni di vita.
Comprendere per rassicurare. La loro convinzione, più o meno esplicita è che la politica sia molto più una faccenda di idee di quanto si pensi. E pertanto il terreno delle convinzioni diffuse, del vocabolario del discorso pubblico, non vada abbandonato a chi lo occupa benissimo, con parole ruffiane. «Il populismo si nutre di cibo avariato, negli avanzi». Il cibo avariato, in questo caso, è quella cultura avversa alla libera concorrenza che permea la storia repubblicana, a cominciare dalla Costituzione.
Grazie alla saldatura di marxismo e cattolicesimo sociale, la Carta è tutto fuorché ospitale verso le istituzioni-cardine di un’economia di mercato. Per paradosso: perché proprio mentre veniva scritta, alcune scelte cruciali d’ispirazione «liberista» (l’apertura internazionale anziché il protezionismo, la prudenza nella gestione della moneta, l’abolizione dei prezzi politici) gettavano le basi del «boom». Ma nel discorso pubblico più che i fatti contano le interpretazioni. Per questo fusioni e acquisizioni internazionali diventano oggi materia di tifo «come si giocasse una partita della nazionale», ci si dispera se un’impresa italiana passa in mani straniere oppure ci si preoccupa che «un’impresa italiana che fa shopping all’estero distragga risorse e attenzione dal nostro paese». Per questo si consumano velocemente parole come «austerità», con la quale «abbiamo buttato nel cassetto dell’indifferenziata tutte le virtù».
In odio all’austerità, sembra che la dissennatezza nella gestione delle finanze pubbliche sia diventata una virtù. De Bortoli e Rossi non accusano i «populisti», sanno che certi mali vengono da lontano e sono ben consapevoli che determinati pregiudizi si annidano anche all’interno dell’establishment, che odia i populisti e ne è odiato. Riescono però ad avere ottimismo: «la mancanza di offerta di una politica ragionevole e appetibile determina o lo spostamento della domanda verso offerte irragionevoli o l’abbandono del mercato politico». Di qui la necessità di un engagement senza compiacimenti intellettualistici e col gusto della buona divulgazione. Perché l’offerta di ragionevolezza creerà la sua domanda.
Ferruccio de Bortoli – Salvatore Rossi, La ragione e il buonsenso. Conversazione patriottica sull’Italia, Il Mulino, pp. 152, euro 15
da Tuttolibri-La Stampa, 8 febbraio 2020