19 Febbraio 2023
MF-Milano Finanza
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Ambiente e Energia Politiche pubbliche
Nelle ultime settimane sono arrivati, da Bruxelles, una serie di provvedimenti muscolari sull’ambiente. Prima la proposta di direttiva sull’efficienza energetica degli edifici, che punta ad avere immobili a emissioni zero entro il 2050. Poi il regolamento sulle emissioni di CO2 dai veicoli leggeri, che prevede il divieto di immatricolazione di auto e furgoni con motore endotermico dal 2035. Infine la proposta di regolamento sui veicoli pesanti, con obiettivi di riduzione delle emissioni del 45% nel 2030, 65% nel 2035 e 90% nel 2040, e l’obbligo di autobus urbani a zero emissioni dal 2030.
Queste misure hanno alcuni aspetti in comune: tutte, seppure in modo diverso, si sganciano dal tradizionale approccio europeo basato, almeno in teoria, sulla neutralità tecnologica; tutte hanno suscitato vivaci proteste nel Paese, che se ne sente ingiustamente danneggiato; e tutte rappresentano un tentativo della Commissione, man mano che le elezioni del 2024 si avvicinano, di definire l’identità europea attorno alla leadership ambientale.
Ci sono anche delle significative differenze. Mentre i nuovi target sui motori costituiscono una sfida se non proprio una minaccia all’industria automotive europea, quelli sugli edifici rischiano di avere impatti fortemente diversificati tra Paesi. Tuttavia gli uni si applicano uniformemente negli Stati membri, mentre gli altri lasciano ampi spazi di flessibilità nella loro traduzione concreta. Inoltre, almeno a uno sguardo superficiale, tali interventi sono complessivamente coerenti con l’adesione entusiastica non solo delle istituzioni comunitarie, ma anche degli Stati membri alla strategia di decarbonizzazione che mira alla neutralità carbonica nel 2050.
Il problema, dunque, non sta tanto nella direzione di marcia e neppure negli obiettivi “di alto livello”, ma nella loro attuazione pratica e nelle modalità con cui essi vengono perseguiti. Il caso della guerra al motore a scoppio è emblematico. Mettere fuori legge questa tecnologia nel 2035 significa lanciare un messaggio chiaro all’intera filiera: chi può cambi piattaforme produttive; chi non può si rassegni all’estinzione. Gli effetti, dunque, si vedranno molto prima del 2035: per esempio, meccanici, benzinai e altri dovranno ragionare con freddezza sulle prospettive del loro business negli anni a venire. Su un piano differente, è improbabile che i car maker continuino a investire nello sviluppo di motori più efficienti, sapendo che nel giro di pochi anni non potranno comunque più essere venduti. Allo stesso modo, diventa assai meno promettente la ricerca nel campo dei carburanti sintetici, che potranno al massimo soddisfare una nicchia di consumo nel trasporto pesante (a meno che non si chiuda pure questa).
Ma ciò significa che, nel nome di una decarbonizzazione spinta domani, si rinuncia di fatto a una decarbonizzazione graduale oggi. E poco conta che sia prevista una revisione della fattibilità degli obiettivi nel 2026: anzi, aggiunge incertezza politica all’incertezza tecnologica. Anche nel caso degli edifici, si ha l’impressione di un approccio troppo unilaterale, incapace di cogliere l’eterogeneità delle situazioni. Investimenti massicci nell’efficienza energetica hanno senso (ambientale ed economico) nelle zone molto fredde o molto calde. Ma in quelle temperate il rischio è che le emissioni sottese al rifacimento degli immobili siano superiori a quelle effettivamente risparmiate in virtù della minore domanda, specialmente se si considera che l’impronta carbonica dei consumi energetici è destinata a calare nel tempo.
E’ vero che la proposta di direttiva prevede varie eccezioni, per esempio per le seconde case poco utilizzate, ma ciò rischia di creare un patchwork di obblighi che non farà altro che aumentare la confusione e l’incertezza. E l’Italia? Non ha tutti i torti chi accusa il Paese di aver per troppo tempo ignorato il problema, salvo poi stracciarsi le vesti per l’impreparazione della sua industria o per le possibili penalizzazioni del mercato immobiliare. Sarebbe però sbagliato scaricare ogni responsabilità sulla classe dirigente italiana, perché vi sono nelle nuove regole aspetti oggettivamente critici. Il problema è che tutti i partiti hanno speso gli ultimi vent’anni a invocare il ritorno della politica industriale. Ora che l’hanno ottenuto, faticano ad articolare un’opposizione credibile.
da MF-Milano Finanza, 18 febbraio 2023