Franco Bassanini lo ha detto e scritto a più riprese: la Cassa Depositi e Prestiti, “ancorché partecipata dallo Stato, dotata di una missione pubblica, e assistita da una garanzia statale di ultima istanza, è e resta una market unit: uno strumento di mercato, per interventi market friendly, rispettosi delle regole della concorrenza e dei principi del Mercato Unico Europeo, a partire dal divieto di aiuti di Stato”. E noi gli abbiamo sempre fatto notare che la natura delle istituzioni non va cercata nelle idee e nelle intenzioni di chi le guida ma nella struttura di incentivi implicita nelle istituzioni stesse. Struttura che, inevitabilmente, prima o poi finisce per prevalere, con buona pace delle profonde convinzioni e dei sinceri desideri dei singoli.
Quel che accade intorno e dentro alla Cassa Depositi e Prestiti in queste ultime settimane lascia pensare che non fossimo in errore. Abbiamo peccato – caso mai – di eccessiva timidezza. La stessa Unione Europea si sta domandando se l’idea di fare della Cassa lo strumento della politica industriale governativa non sia un indizio più che sufficiente per pensare che in tutto o in parte quella che – nelle intenzioni dei suoi amministratori – era una market unit non si stia rapidamente avviando a diventare una government unit o, per essere più precisi, a mostrare il suo vero volto. Del resto, annunciare in un talk show televisivo l’avvicendamento anzitempo del board di una società controllata in cui sono peraltro presenti importanti soci privati, segnala con una certa nettezza che il presidente del Consiglio considera la Cassa come una “roba sua”. Una government unit, appunto, così come molti piccoli imprenditori considerano la loro piccola impresa una family unit. E le modalità con cui le Fondazioni bancarie si sono affrettate a “monetizzare” i loro diritti circa la governance della società, la dice lunga circa il ruolo svolto fin dal primo giorno dal sedicente socio privato. Serve altro?
Evidentemente sì, perché – nonostante l’evidenza si accumuli ormai senza soste – la richiesta avanzata a gran voce da più parti è quella di conoscere le motivazioni che hanno mosso il governo (o, per essere più precisi, il presidente del Consiglio, visto che del ministro competente non abbiamo il bene di conoscere l’opinione). Come se il ritorno al finanziamento dei disavanzi correnti degli enti locali determinato dalle iniziative in tema di rimborso dei debiti della P.A., come se i programmi di salvataggio delle aziende in crisi, come se i recenti interventi in comparti difficilmente descrivibili come un caso di fallimento del mercato, come se le grandi manovre sulla banda larga non siano sufficienti a disegnare una strategia di progressiva e crescente riconquista di spazi economici per l’operatore pubblico. Di rivincita, se così si può dire, rispetto alla stagione delle privatizzazioni ormai distante assai più di vent’anni. I tanti che si appassionano al tema dei costi della politica farebbero bene per un attimo a distogliere la loro attenzione dalle tappezzerie del Senato: si prepara qualcosa di assai più interessante.
I vertici (ormai ex) della Cassa Depositi e Prestiti sono – come dire? – vittime delle loro macchinazioni così come lo saranno – prima o poi e al di là dei loro meriti – i vertici in pectore ed il governo che ne ha imposto la presenza. Spiace, ma erano avvertiti i primi e lo sono oggi i secondi.
Meno consapevoli, temiamo, sono altre vittime annunciate. La Cassa Depositi e Prestiti gestisce il risparmio postale, che spesso significa il gruzzolo accumulato con fatica da pensionati e nuovi italiani. La politica industriale rischia di essere un gioco costoso: per loro e per tutti i contribuenti.