Catastrofismo e scienza: un approccio equilibrato

È opportuno procedere con cautela e modestia nelle difficili scelte che abbiamo di fronte

23 Ottobre 2019

Aspenia

Francesco Ramella

Research fellow, IBL e docente di Trasporti, Università di Torino

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Gli allarmi per i problemi climatici vanno posti nel giusto contesto, per evitare catastrofismi non giustificati: la capacità di gestire le sfide naturali è in realtà aumentata e continua ad aumentare. Qualunque intervento deve comunque tenere conto dei costi economici, perché la crescita e il progresso tecnologico sono i maggiori ingredienti del benessere – compresa la resilienza rispetto al clima.

Mai così tanti abitanti hanno popolato la Terra. Mai prima d’ora abbiamo vissuto così a lungo. Mai così basso, in rapporto alla popolazione, è stato il numero di persone che vivono in povertà assoluta: ancora nel 1990 erano poco meno di quattro su dieci, nel 2015 “solo” uno su dieci.

Non paiono dunque essersi rivelati corretti gli allarmi lanciati negli anni Settanta da coloro che indicavano come prossima una catastrofe per l’umanità dovuta all’impossibilità di produrre cibo a sufficienza per tutti e per i livelli crescenti di inquinamento. E che non esitavano a indicare come auspicabile l’adozione di politiche coercitive per la riduzione del numero delle nascite. Grazie alle innovazioni nel settore agricolo la disponibilità di cibo pro capite, lungi dal diminuire, è cresciuta nel tempo. E le città che avrebbero dovuto soccombere sotto una cappa di smog sempre più spessa hanno visto gradualmente ridursi i livelli di inquinamento. Grazie a piani imposti dall’alto per cambiare i comportamenti individuali? Niente affatto: ci spostiamo molto di più in auto rispetto al passato, ma la riduzione delle emissioni inquinanti dei veicoli ha più che compensato l’incremento dei chilometri percorsi.

Analoghi risultati sono stati conseguiti nella produzione di energia e negli impianti di riscaldamento. Anche se la maggior parte di noi lo ignora, i bambini che nascono oggi respirano un’aria assai meno inquinata di quella toccata in sorte ai loro genitori e nonni. Le condizioni peggiori si registrano oggi all’interno delle abitazioni nei paesi a minor reddito con limitato accesso ai combustibili fossili – soprattutto in ragione dell’utilizzo di piccole stufe.

Non paiono essersi avverate neppure le più fosche previsioni in merito all’estinzione di un elevatissimo numero di specie viventi. Negli anni Settanta si ipotizzava la perdita di centinaia di migliaia di specie, che corrisponde all’ordine di grandezza ipotizzato in un recente rapporto dell’ONU: il dato reale a oggi è di tre ordini di grandezza più piccolo.

I cambiamenti climatici come catastrofe possibile
Una nuova preoccupazione ha però preso il posto di quelle passate. È quella dei cambiamenti climatici, causati dall’emissione in atmosfera di gas serra in larga misura riconducibile all’utilizzo dei combustibili fossili.

Negli ultimi mesi, soprattutto grazie alla diffusione del messaggio della giovane attivista Greta Thunberg, i toni apocalittici sembrano avere ripreso il sopravvento: o modifichiamo in breve tempo i nostri comportamenti riducendo al più presto le emissioni di gas serra, oppure sarà la fine della civiltà.

Eppure, a giudicare dai dati quantitativi a nostra disposizione la “versione dei fatti” che va per la maggiore sembra discostarsi non poco da quanto attestano le conoscenze scientifiche del fenomeno. Si assume spesso a priori che qualsiasi mutamento del clima indotto dall’attività umana sia negativo, il che equivale ad assumere la preesistenza, in assenza di attività umana, di una condizione ottimale per tutti gli innumerevoli risvolti delle condizioni atmosferiche. L’aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera e quello della temperatura hanno in realtà impatti sia negativi che positivi. Ad esempio: la riduzione in alcune zone della mortalità causata dal freddo e la diminuzione dei consumi per il riscaldamento; la possibilità di coltivare zone in precedenza non adatte alla produzione agricola; mia crescita più veloce per alcune tipologie di piante e una maggior resistenza alla siccità. Non è un caso che negli ultimi decenni la Terra sia divenuta molto più “verde” di quanto lo fosse in precedenza.
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Tabella 1

Tra gli effetti negativi, quasi universalmente accettati, è quello per cui i cambiamenti climatici avrebbero già portato a un incremento della frequenza dei fenomeni atmosferici estremi. Eppure, tale convinzione non trova riscontro nel più recente documento stilato dall’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che sintetizza le conoscenze relative allo stato del clima: le valutazioni relative ai fenomeni estremi non sono affatto conclusive.

Vi è un generale consenso tra gli studiosi del clima che, nel lungo periodo, superata la soglia di un incremento di 1,5-2°C al di sopra della temperatura del periodo preindustriale, gli effetti negativi prevarranno su quelli positivi. L’elemento che sembra però del tutto incompreso è la prevedibile entità dell’impatto che, nello scenario più probabile, equivarrebbe a una perdita di benessere intorno all’1,3% del reddito pro capite: in altre parole un secolo di cambiamenti climatici è paragonabile a un anno di recessione economica.

L’adozione di politiche volte a ridurre tale impatto negativo tramite una riduzione delle emissioni dovrebbe essere valutata alla luce dei costi da sostenere e dei benefici attesi che corrispondono a una frazione più o meno rilevante dell’impatto sopra descritto.

Come ha illustrato in un recente articolo William Nordhaus (economista e premio Nobel), politiche volte a contenere l’aumento di temperatura entro i 2,5°C comporterebbero costi maggiori dei benefici ossia porterebbero a una situazione peggiore di quella che si determinerebbe in assenza di interventi. Lo scenario ottimale (optimal controls nella tabella) si avrebbe con un taglio delle emissioni più contenuto conseguibile con un costo (abatement cost) pari a circa un settimo di quello che si dovrebbe sostenere per centrare l’obiettivo dei 2,5°C e accettando un livello di danni doppio.

Se da un lato sarebbe miope ignorare il problema, anche e forse soprattutto in considerazione del fatto che non è possibile escludere che nel lunghissimo termine l’esito dell’azione umana sul clima abbia effetti catastrofici, dall’altro un eccesso di zelo sarebbe controproducente: si andrebbe infatti a rallentare, per via del maggior costo dell’energia, il processo di crescita economica che, abbinato al progresso delle conoscenze scientifiche, ha reso possibile difendersi dal clima come mai prima era successo.

Il fattore costo e il ruolo insostituibile della crescita economica
Per fare un solo esempio tra i molti possibili: negli Stati Uniti dal 1960 a oggi la mortalità correlata ai picchi di temperatura si è ridotta del 75% quasi esclusivamente grazie alla diffusione degli impianti di condizionamento dell’aria. Più in generale, da svariati decenni il numero assoluto di decessi e, ancor più, il tasso di mortalità relativo a eventi estremi è si è drasticamente ridotto: da 200 morti per milione di persone negli anni Trenta del XX° secolo, a 5 in questo decennio.

Per comprendere quanto accaduto è d’altra parte sufficiente paragonare gli effetti di un identico fenomeno estremo che colpisca un paese con elevato reddito e uno povero. Nel primo caso, grazie alla capacità di prevederlo, alla disponibilità di strutture più resilienti e alla possibilità di allontanarsi rapidamente dai luoghi colpiti dall’evento eccezionale, le conseguenze negative per le persone sono di gran lunga più contenute.

A partire dal 1998, il Centre for Research on the Epidemiology of Disasters, creato con il supporto iniziale della WHO e del governo belga, aggiorna un database che raccoglie i dati relativi al numero di vittime e di persone coinvolte nonché quelli riferiti ai danni economici correlati a eventi estremi sia di origine naturale che tecnologica; il database copre il periodo che va dal 1900 a oggi e documenta le conseguenze di oltre 18.000 disastri.
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Figura 1

Dall’analisi di tali dati si evince come sia in termini di numero assoluto di decessi sia con riferimento ai tassi di mortalità (a fortiori essendo quadruplicata la popolazione mondiale nel periodo oggetto di analisi), l’evoluzione nel corso dei passati cento anni sia stata oltremodo positiva. Il decennio che ha fatto registrare il maggior numero di vittime è quello degli anni Venti con un numero medio di morti per anno pari a 485.000 e un tasso di mortalità pari a 247 decessi per milione di persone. Da allora il numero di decessi è diminuito con regolarità e ancora più velocemente è sceso il tasso che negli ultimi venti anni si è attestato intorno a cinque vittime per milione di persone (a fronte di un tasso di mortalità per tutte le cause pari a 8.116): il rischio di perdere la vita a causa di un evento meteo estremo si è quindi ridotto di un fattore pari a cinquanta.

Nello stesso Bangladesh, uno dei paesi considerati più a rischio a causa dei cambiamenti climatici, il tasso di mortalità correlato agli eventi ciclonici è diminuito del 98% grazie alla diffusione di sistema di allerta e alla costruzione di rifugi temporanei.

Nel 1970, il ciclone Bhola causò il decesso di oltre mezzo milione di persone. Nel 2007, il ciclone Sidr ha ucciso 3.406 persone. Nell’anno 2016, il ciclone Roanu ha mietuto “soltanto” 30 vittime.

Appare dunque assai problematico l’approccio pianificatorio seguito fino a oggi con la definizione aprioristica di obiettivi di riduzione delle emissioni complessivi e per singolo settore economico, a prescindere dai costi necessari per perseguirli. A esso sarebbero da preferirsi modalità di intervento, come ad esempio l’adozione di una carbon tax, volte a internalizzare i costi esterni delle attività economiche e a massimizzare il risultato conseguibile a parità di risorse impiegate. Ma è una strada probabilmente poco attraente per coloro che seguono una hidden agenda mirata ad accrescere la spesa pubblica, espandere il ruolo della burocrazia e, spesso, non di correggere i “fallimenti del mercato” ma di abbattere tout court il sistema capitalista. Senza dimenticare chi, più prosaicamente, mira a garantirsi profitti facili al riparo della concorrenza come spesso accaduto con l’adozione dei provvedimenti di incentivazione delle fonti rinnovabili.

Per tutte queste ragioni, è opportuno procedere con cautela e modestia nelle difficili scelte che abbiamo di fronte: citando Manzoni, “adelante, con juicio”. È possibile farsi male percorrendo una strada a velocità troppo elevata ma altrettanto rischiosa può essere una frenata troppo brusca.

Da Aspenia, n. 3/2019

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