La censura accademica dei presunti progressisti


È accettabile che i politici possano mettere all’indice un testo universitario?


12 Agosto 2024

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nelle società occidentali non esistono «indici dei libri proibiti» e agli studiosi viene riconosciuta la massima libertà di espressione. Qualcosa da noi però non funziona alla luce di quanto sta accadendo intorno al manuale di diritto privato scritto dal professor Francesco Gazzoni. Una parlamentare del Pd, Debora Serracchiani, infatti, ha chiesto al ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, se intende permettere l’uso di quel volume nelle aule universitarie oppure se ha intenzione di proibirlo.

Si tratta di una pretesa assurda, poiché al governo non spetta il compito di vietare libri. D’altra parte nelle università si studiano – o comunque si dovrebbero studiare – testi come Il Capitale di Karl Marx, La mia battaglia di Adolf Hitler e il Libretto rosso di Mao Tse-tung. Quei volumi sono all’origine di società totalitarie, in cui ogni libertà è stata conculcata (a partire dalla libertà di espressione), ma proprio per questo sarebbe una follia che in nome della libertà s’impedisse ai giovani e agli studiosi di confrontarsi con quelle tesi.

Uno dei principi fondamentali di ogni società libera è che mentre ogni azione aggressiva va proibita e quando non si riesce a impedire va adeguatamente punita, le idee non possono essere avversate con gli strumenti della legge, ma solo con opponendo altre idee.

Il fatto che le università siano per lo più di Stato non può preludere a un loro totale controllo da parte di governo e parlamento. Sarebbe importante avere atenei che vivano solo delle risorse ottenute dagli studenti, ma anche in un sistema educativo statizzato quale è il nostro in Parlamento non si può discutere quali siano i libri ammessi e quali no.

In generale, nessuno deve permettersi di chiudere la bocca al prossimo. Ed è egualmente grave che pure taluni magistrati sembrino favorevoli alla riformulazione dell’Indice, stavolta basato non sull’adesione alle tesi sostenute dalla Chiesa cattolica, ma invece sulla conformità al politicamente corretto.

La libertà di espressione è difesa dal primo emendamento dagli Stati Uniti e non ha nulla a che fare con questo o quel contenuto, perché è stata formulata per lasciare esprimere le tesi meno accettate. Quando poi si entra nel merito delle tesi contestate del manuale di Gazzoni – in sostanza lo studioso è finito sulla graticola perché ha sostenuto che dinanzi a una crescente prevalenza di donne nella magistratura ci si può chiedere se in talune materie (come il diritto di famiglia) una magistrata non possa essere più orientata verso talune decisioni, invece che verso altre – forse se avesse usato il termine bias, come fanno quelli «bravi», nessuno se ne sarebbe accorto.

La vicenda evidenzia, ancora una volta, come la classe intellettuale italiana sia quasi interamente schierata con un certo progressismo, pronto ad accusare chiunque di sessismo o cose simili. Quel che è peggio, però, è che qui si conferma che l’attitudine prevalente, di fronte a opinioni che non condividiamo, consiste nel tentar di chiudere la bocca e ricorrere alla censura.

Sul mercato esistono tantissimi manuali di diritto privato, che sono adottati in università, e ognuno è portatore di una serie di pregiudizi ideologici. Uno degli intellettuali italiani più noti e influenti degli ultimi decenni, Stefano Rodotà (anch’egli studioso di diritto privato), scrisse un volume in cui quella che è la base della nostra libertà personale, la proprietà, veniva presenta come il «terribile diritto».

Nessun liberale si sognò mai di chiedere che non venisse utilizzato in università. Perché la libertà di espressione va riconosciuta innanzitutto a quanti non la pensano come noi.

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