Il centrodestra e il tempo perduto

La linea populista è stata premiante sul piano elettorale ma ha tenuto alla larga accademici, professionisti e imprenditori

18 Gennaio 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Per il Quirinale, Matteo Salvini vorrebbe «un’elezione veloce e di un uomo del centrodestra». La candidatura di Silvio Berlusconi si fonda su un dato di fatto: la sua coalizione ha i numeri per dare le carte. Il Cavaliere ha messo gli alleati nell’angolo, ottenendone il sostegno, anche per un altro motivo. Per quanto sia difficile immaginarsi l’ex premier al Quirinale, non ci sono nomi della stessa area politica che appaiano granché plausibili. Renzi giura che voterebbe «un altro candidato di centrodestra», ma chi?

Il centrodestra, nel suo assetto attuale, nasce con le elezioni del 1994, quando il Cavaliere cucì insieme il «Polo delle libertà» (Forza Italia più Lega) al Nord e quello del «buongoverno» (FI più Alleanza Nazionale) al Sud. Da allora, Berlusconi è stato «il più longevo premier della Repubblica» e quei partiti hanno espresso sindaci, presidenti di provincia, giunte regionali.

Eppure, dopo trent’anni, non hanno personalità che possano essere considerate «all’altezza» del Colle. Donne e uomini, cioè, che non siano avventizi della politica, che abbiano alle spalle una militanza chiara ma nello stesso tempo, per gli allori conquistati nel mondo delle professioni o dell’impresa o per l’esperienza nelle istituzioni, godano se non della simpatia almeno del rispetto di chi sta dall’altra parte.

Per disporre di un certo numero di «quirinabili», bisogna partire da un campo ampio, da una classe dirigente con individualità di rilievo. Qualcuno sosterrebbe che il centrodestra non le ha mai avute, perché il partito-azienda berlusconiano nasce e prospera proprio sulle macerie di tutto un ceto politico: quello dei moderati della prima repubblica.

Negli anni Novanta, però, il centrodestra portò in Parlamento, fra gli altri, due dei maggiori pensatori del dopoguerra, Gianfranco Miglio e Lucio Colletti. Ogni tanto è parso che vi si avvicinassero imprenditori importanti e «tecnici» di livello. Come i «professori di Forza Italia», costoro sono stati valorizzati per un breve periodo, poi rapidamente messi da parte.

Non si governa negli enti locali senza persone che li amministrino. È raro, in Italia, che un assessore comunale prosegua il suo cursus honorum con un’esperienza in regione e poi magari in Parlamento. Per carità, un decoroso assessore al bilancio non necessariamente sarà un buon ministro delle finanze ma in quasi tutti i mestieri è normale che le responsabilità crescano con l’esperienza. Amministrazione e politica sembrano andare su due binari paralleli, soprattutto dopo l’abolizione del «Mattarellum». Per avere successo nella politica nazionale conta più la capacità di intercettare il malessere di una categoria, o la riconoscibilità televisiva, che l’essere stati buoni amministratori.

Da una parte, i partiti di centrodestra non sono riusciti a far crescere un ceto politico «autoprodotto». Dall’altra la linea sovranista e populista, premiante sotto il profilo elettorale, ha consigliato a molti, che fossero accademici, professionisti o imprenditori, di stare alla larga. La prossimità a forze che peraltro sono maggioranza nel Paese è vissuta, ancora oggi, come una sorta di macchia sul curriculum.

Il tema non è nemmeno l’annosa questione della «cultura di destra». È proprio il rapporto fra i partiti di centrodestra e la società. Che è disponibilissima a votarli, per ragioni «di pancia», ma poco propensa a impegnarsi al loro interno. Pesa il racconto della politica, vista come roba da mestatori.

Conta probabilmente anche l’assenza di una prospettiva, di un nucleo di principi attorno ai quali provare a raccogliere persone. Il centrodestra ha i suoi gruppi sociali di riferimento, interagisce con chi li rappresenta, presta ascolto alle loro istanze ma raramente offre loro un orizzonte, un’idea del loro posto nel mondo e in Italia.

Non è questione di saper prendere voti. In quello, Meloni e Salvini sono bravissimi. Il problema è quel che si fa un minuto dopo aver vinto le elezioni, e con chi. A furia di evitare di porsi il problema, il centrodestra rischia di ritrovarsi sempre nelle medesime condizioni. Un perpetuo ‘94, in cui non mancano i consensi ma non si sa come incidere sul Paese e sui suoi apparati.

dal Corriere della Sera, 18 gennaio 2022

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