Anche nell’ultimo trimestre il nostro Paese ha visto una crescita negativa del PIL. Dei dati hanno dato abbondantemente conto i giornali, desiderosi di spiegarli alla luce di quanto la politica ha fatto, o non fatto, negli ultimi mesi. Ma perché il dibattito sia utile, sarebbe più opportuno allargare lo sguardo, e chiedersi come mai altri Paesi si sono risollevati dalla crisi, hanno oggi PIL, reddito pro capite, persino indici di borsa superiori rispetto al livello del 2007. Perché da noi la crisi sembra infinita, mentre altrove, pur fra mille problemi, se la sono lasciata alle spalle?
La risposta forse non va cercata nella politica: ma nella cultura politica.
In Italia sin da principio è prevalsa una narrazione consolatoria: sia nell’autunno che vide fallire Lehman Brothers, che nell’estate che vide schizzare ai massimi lo spread.
Ci è stato detto che da noi la crisi avrebbe avuto un impatto minore, che la nostra bolla immobiliare era meno gonfia di altre, che le nostre banche non erano dedite alla finanza selvaggia ma avevano continuato a finanziare le imprese, che avevamo sì un immenso debito pubblico ma anche una grande ricchezza privata. Nel mondo c’era tempesta, ma la nave Italia era un vecchio vascello, forse non velocissimo ma solido e robusto. Il nostro “modello sociale” teneva e poteva tenere: a patto di garantire la “stabilità politica”. Questo il pensiero di ampi settori della classe dirigente.
Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: altri Paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Spagna), in modo diverso e senz’altro discutibile, hanno messo mano al problema delle banche, noi no. Nonostante gli stress test dell’Eba denunciassero che eravamo in coda alla graduatoria per capitalizzazione, abbiamo rinviato, sopito, nascosto: solo ora, ad otto anni dallo scoppio della crisi dei sub-prime, sembra che qualche banca chiuderà, che qualche altra cambierà proprietario. Come stupirsi se altrove il credito bancario aumenta e da noi continua a ridursi?
Abbiamo continuato a discutere di cambio dell’euro rivalutato, di inflazione “insufficiente”, di eccesso di austerity; ma anche Keynes infine riconobbe che l’aggiustamento è sempre reale. Svalutazioni e inflazione sono solo un modo per ovviare a una condizione di rigidità del salario reale: cioè un modo per ridurre il salario reale senza ridurre il salario nominale. Ecco perché, di fronte alla impossibilità di generare svalutazione e inflazione, la Spagna, per fare un esempio, ha ridotto il salario reale. C’è da stupirsi se la Spagna è in ripresa, e noi ancora in recessione (una recessione sostanzialmente ininterrotta da sei anni)?
Per anni ci siamo voluti consolare, dicendo che a un grande debito pubblico corrispondeva una notevole ricchezza privata: argomento scivoloso, perché nella narrazione della crisi italiana viene utilizzato per sostenere l’opportunità di una imposta patrimoniale straordinaria. Ma una imposta di questo tipo, cara ai nemici della cosiddetta “austerità”, avrebbe sulla domanda il medesimo effetto, elevato a potenza, che proprio costoro paventano per la riduzione delle spese pubbliche. Resi più poveri, o meno ricchi, gli italiani ridurrebbero vistosamente i propri consumi, con effetti catastrofici.
Ci sarebbe un modo per indirizzare quella ricchezza privata verso la riduzione del debito pubblico: che lo Stato venda a prezzi di mercato tutto il vendibile. Invece, cosa abbiamo privatizzato dall’avvio della crisi? Nulla, perché non era mai il tempo per “svendere”: e a furia di non svendere, probabilmente i valori esigibili continuano a scendere. Nei migliori dei casi, s’è fatta un po’ di prestidigitazione, immaginando che la Cassa Depositi e Prestiti potesse servire per spacciare per privato ciò che era e resta sotto controllo pubblico.
Non è certo nuovo, il paragone fra le crisi italiana del 1992 e quella di questi anni. All’epoca avevamo una classe dirigente andata in frantumi, e si fecero senz’altro molti errori: gli stessi che stigmatizzano coloro che giustamente ricordano che i mali di oggi vengono da lontano.
Eppure, le misure prese in quegli anni ingigantiscono, se paragonate con quanto avvenuto dal 2008 ad oggi. Per reagire alla crisi del 1992 chiudemmo l’Iri, il Banco di Napoli, l’Isveimer. Privatizzammo le banche pubbliche e l’Ina. Ora abbiamo una assicurazione di proprietà dello Stato che è più grande e importante di quanto fosse l’Ina, abbiamo trasformato la Cassa Depositi e Prestiti in una nuova Iri, abbiamo costituito un’altra Banca del Mezzogiorno, e qualcuno ciancia di costituire nuovi Istituti di Credito Speciale, novelle Isveimer.
È proprio vero. Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.