Com'è amaro il nazionalismo in tazzina

I tweet di alcuni politici contro l'arrivo di Starbucks a Milano rivelano un certo provincialismo autarchico

18 Settembre 2018

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nei giorni scorsi alcuni esponenti politici italiani (Matteo Salvini e Giorgia Meloni, in particolare) hanno espresso il loro disappunto per l’apertura del primo Starbucks a Milano e, in particolare, per le lunghe code formate da quanti hanno voluto gustare i caffè offerti dalla catena americana. Il colosso della ristorazione ha aspettato vari anni prima di sbarcare da noi e alla fine l’ha fatto limitandosi ad aprire solo una “roastery” nel capoluogo lombardo. Per quale motivo? Gli esperti di marketing di Starbucks hanno sempre avuto presente come sia difficile, per un’impresa di quel tipo, riuscire a competere con la rete informale dei bar italiani, dove si beve un ottimo caffè a un prezzo modesto. Ora sono arrivati anche da noi, perché Milano è una città internazionale in cui vivono tanti stranieri e perché pure vari milanesi, di ritorno da Londra o New York, sentono talvolta la nostalgia di quell’atmosfera.

Processi complessi
Cosa c’entra tutto questo con i nostri politici della destra avversa alla globalizzazione? Salvini e Meloni hanno puntato il diritto contro Starbucks perché è un’azienda straniera, come se fosse possibile e ragionevole adottare una prospettiva autarchica. A ben guardare, tutto quello che utilizziamo e mangiamo è il risultato di processi complessi, a cui contribuiscono in vario modo imprese e lavoratori di ogni continente. Una scelta culturale nazionalistica, tale da suggerire perfino le scelte alimentari, nasce quindi da una prospettiva tanto ristretta quanto provinciale, incapace di comprendere come l’interazione tra persone diverse (anche di culture disomogenee) permetta di far crescere la civiltà. Bisognerebbe ricordare a Salvini e Meloni che dovrebbero lasciar stare le scelte di consumo di tutti noi e che il più grande filosofo italiano della storia, Tommaso d’Aquino, era nutrito di pensiero greco, che in larga misura aveva ricevuto grazie alla mediazione araba.
Non è comunque solo la destra a inseguire il sogno di un’Italia chiusa su se stessa e ostile a quanto viene dall’estero. Pure larga parte della sinistra avversa tutto quanto giunge a noi da fuori. E così i progressisti detestano le multinazionali e spesso favoleggiano un mondo “a chilometro zero”: dove nessun Tir lasci la Cina o gli Stati Uniti per portare da noi questo o quel prodotto. Un simile imbarbarimento è insomma sia di destra sia di sinistra, dato che mescola il rigetto “no global” della libertà di mercato e l’orgoglio patriottardo, l’ecologismo più radicale e la difesa di ben precisi interessi corporativi.

Volontà di chiusura
Non c’è però nulla di più anti-italiano di questa volontà di chiusura. Per secoli, infatti, siamo stati mercanti e viaggiatori, presenti a ogni latitudine e interessati a ogni genere di scambio. È significativo che il testo che forse più di tutti ha celebrato la grandezza di Venezia, il “De Republica et Magistratibus venetorum” di Gasparo Contarini (risalente alla prima metà del Cinquecento), parli di Rialto come del «grande mercato del mondo». E questo perché nella città lagunare confluivano turchi, tedeschi, greci, albanesi, armeni, slavi, spagnoli e via dicendo, che contribuivano ad arricchire la città lagunare. Lo stesso vale per Firenze, Genova, Milano e molte altre città italiane, che sono diventate ricche e civili essenzialmente perché sono state straordinari luoghi di commercio, dove era possibile compiere esperienze con persone venute da lontano. Nel nostro passato abbiamo sempre apprezzato la bellezza della diversità, dell’incontro e del pluralismo, ma le cose sono cambiate con la costruzione dello Stato nazionale. Da quel momento i politici hanno iniziato a lanciare invettive contro la “perfida Albione” e tutto ciò che è anglosassone.

La difesa dell’Italietta
In questo senso, Benito Mussolini fu molto netto e rigoroso quando si schierò a difesa dell’Italietta e cercò di sbarrare le strada ai prodotti stranieri. L’operazione non funzionò veramente e perfino uno dei suoi figli, Romano, finì per innamorarsi del jazz. Al Duce però non piaceva questa nostra esterofilia e così il regime intralciò quanti volevano suonare la musica dei neri d’America, costringendo pure a italianizzarne i titoli. L’imporsi di tale spirito strapaesano ci fece così sprofondare nel ridicolo, dal momento che uno dei brani più celebri del jazz delle origini, “St. Louis Blues”, divenne “Le lacrime di san Luigi”. Per la stessa ragione, il comune valdostano di “Saint Vincent” fu ribattezzato “San Vincenzo”, e via dicendo.
Come s’è sottolineato, questo atteggiamento ottusamente nazionalista rappresenta però la fuga degli italiani dalle loro tradizioni, perché nei suoi tempi migliori (tra fine del Medioevo ed età rinascimentale) l’Italia è stata agli antipodi dell’Argentina di Peron e di Evita. Il diffuso nazionalismo che segna la penisola ai nostri giorni ci lascia comunque bene intendere verso quale destino ci stiamo dirigendo.

Da La Provincia, 18 settembre 2018

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